lunedì 21 dicembre 2015

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La legge a portata di click: Pluralità di crediti e pignoramenti: ecco cosa acc...: “ C'è chi fa debiti per necessità, chi per leggerezza, chi per vizio. Solo il primo, di solito, li paga ” diceva Roberto Gervaso nel...

giovedì 10 dicembre 2015

Liquidazione dei compensi per l'attività difensiva svolta - TRIBUNALE DI LUCCA, ORD. 3 LUGLIO 2015

21 settembre 2015
 
 http://www.eclegal.it/it/topic/procedimenti-speciali-e-adr

Liquidazione dei compensi per l’attività difensiva svolta

a cura di Ubaldo Serra
Trib. Lucca, ord. 3 luglio 2015
Scarica l'ordinanza
Riduzione e semplificazione dei riti - Liquidazione degli onorari e diritti di avvocato - Procedimento sommario di cognizione – Mutamento del rito – Inammissibilità.(Cod. proc. civ., art. 702 bis; d. leg. 1° settembre 2011, n. 150, art. 15)
[1] Nel procedimento di cui all’art. 14 d. leg. 150/2011, finalizzato a definire esclusivamente controversie sul quantum degli onorari di avvocato, la proposizione in via riconvenzionale di una domanda volta a contestare la fondatezza della pretesa, impone, in mancanza della possibilità di mutamento del rito e di separazione della causa, la chiusura in rito del processo per inammissibilità della domanda.
CASO[1] Il provvedimento in epigrafe, relativo ad un procedimento instaurato ai sensi dell’art. 14 del d. Leg. 150/2011, nell’ambito del quale l’avvocato aveva domandato la liquidazione dei compensi per l’attività difensiva, la resistente, in via riconvenzionale, aveva contestato la fondatezza delle pretese, precisa, anzitutto, che il contenuto degli artt. 54, lett. b) n. 2 l. 69/2009, e 3 e 4 del d. leg. 150/2011 esclude per tali procedimenti la possibilità di conversione del rito da sommario ad ordinario, e che non è possibile la separazione del giudizio introdotto dal convenuto cliente per presunte inadempienze o negligenze da parte del professionista, poiché, per ragioni di speditezza ed opportunità la normativa in vigore non autorizza il giudice ad applicare la regola del solve et repete (art. 1462 c.c.) né a pronunciare condanna con riversa delle eccezioni del convenuto.
Pertanto, il collegio giudicante afferma che le controversie disciplinate dall’art. 28 l. 794/1942 ed oggi regolate dallo stesso art. 14 d. leg. 150/2011 riguardano esclusivamente la quantificazione degli onorari dell’avvocato e non anche i presupposti del diritto al compenso. Consegue che quando sono contestati quest’ultimi, come nel caso di specie, la trattazione e la decisione della lite devono seguire il rito ordinario.
SOLUZIONE[1] Il collegio giudicante, per la vexata quaestio, ritiene che la domanda proposta dal ricorrente ai sensi dell’art. 14 d. leg. 150/2011 sia inammissibile. Il convenuto ha contestato non solo la correttezza della quantificazione dei compensi operata in ricorso, ma anche l’esatto adempimento del mandato defensionale da parte del ricorrente, oltre ai presupposti della spettanza dei compensi. Alla luce del fatto che l’oggetto delle controversie disciplinate dapprima dall’art. 28 l. 794/42 e poi dal d. leg. 150/2011 non possono essere estese anche ai presupposti dei diritti al compenso, essendo questi ultimi, nel caso di specie, contestati dal resistente, ne consegue che la trattazione e la decisione della lite devono seguire il rito ordinario.
Pertanto considerato che non è possibile disporre il mutamento di rito, né separare le domande, il ricorso è dichiarato inammissibile; l’art. 4 d. leg. 150/2011 prevede, infatti, la possibilità di mutamento del rito nel caso in cui una controversia «viene promossa in forme diverse da quelle previste dal presente decreto» che non ricorre nel caso de quo, in cui la causa è stata, invece, correttamente promossa nelle forme dell’art. 14 d. leg. 150/2011.
QUESTIONI[1] Secondo l’art. 28 l. 13 giugno 1942, n. 794, espressamente abrogato dall’art. 34 del d. leg. 150/2011, «per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del proprio cliente l’avvocato, dopo la decisione della causa o l’estinzione della procura, se non intende seguire il procedimento di cui agli artt. 633 e seguenti del codice di procedura civile, procede ai sensi dell’art. 14 del d. Leg. 150/2011» (cfr. Cass. 29 gennaio 1996, n. 672, in Giur. it., 1997, I, 1, 226).
L’art. 14 del medesimo decreto inoltre prevede che: «1. Le controversie previste dall'articolo 28 della legge 13  giugno 1942, n. 794, e l'opposizione proposta a norma dell'articolo 645 del codice di procedura civile contro il decreto  ingiuntivo  riguardante onorari, diritti  o  spese  spettanti  ad  avvocati  per  prestazioni giudiziali sono regolate dal rito sommario  di  cognizione,  ove  non diversamente disposto dal presente articolo. 2. E' competente l'ufficio  giudiziario  di  merito  adito  per  il processo nel quale  l'avvocato  ha  prestato  la  propria  opera. Il tribunale decide in composizione collegiale. 3. Nel giudizio di  merito  le  parti  possono  stare  in  giudizio personalmente. 4. L'ordinanza che definisce il giudizio non è appellabile».
Pertanto tale disciplina si applica esclusivamente nelle controversie che hanno ad oggetto l’esatta determinazione degli onorari derivanti da prestazioni giudiziali con l’esclusione di quelle riguardanti i presupposti del diritto al compenso, o altresì, alla sussistenza di cause estintive o limitative.
Il professionista che abbia intenzione di proporre domanda giudiziale per la liquidazione delle spese, degli onorari e dei diritti nei confronti del proprio cliente, deve avvalersi del rito sommario di cognizione ex art. 702 bis c.p.c. (C. Consolo, Prime osservazioni introduttive sul d. leg. n. 150/2011 di riordino - e relativa “semplificazione” - dei riti settoriali, in Corriere giur., 2011, 11).
Lo stesso art.14 d. leg. 150/2011 regola l’ipotesi in cui, a seguito di ricorso ex art. 28 della l. 794/1942, si controverta unicamente in ordine alla misura del compenso previsto per l’avvocato, il che giustifica le peculiarità del procedimento (cfr. Corte cost. 1 aprile 2014 n. 65, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, 1° comma, e 14, 2° comma, sollevata in riferimento all’art. 76 Cost.).
Dunque, vi è un chiaro dato normativo che induce a ritenere che possa trovare tuttora applicazione l’indirizzo più rigoroso, nato e sviluppatosi con riguardo alla disciplina previgente, secondo il quale l’ampliamento del giudizio all’an della pretesa rende inammissibile il ricorso (sul tema G. Balena, Commento all’art. 14 in Codice di procedura civile commentato. La “semplificazione” dei riti e altre riforme processuali 2010-2011 diretto da C. Consolo, Milano, 2012, 192).
Occorre precisare che l’interpretazione così rigidamente ortodossa e formalista sembra dar vita ad una chiara aporia del sistema, giacché consente al convenuto di paralizzare l’azione e ottenere la chiusura in rito del processo, anche con finalità strumentali, semplicemente opponendo una domanda riconvenzionale (ex  plurimis, cfr. Cass.,20 luglio 2012, n. 12609, Foro it., 2012, I, 2649;  Cass. 5 maggio 2011, n. 17053, id., Rep. 2011, voce Avvocato, n. 182; tra le prununce di merito, v. Trib. Mantova, ord. 16 dicembre 2014; Trib. Verona, ord. 3 maggio 2013).

mercoledì 18 novembre 2015

mercoledì 21 ottobre 2015

Omessa indicazione della PCE nell'atto giudiziario Cassazione VI Civile – 2, ordinanza 11 dicembre 2014 – 4 maggio 2015, n. 8870




Cassazione VI Civile – 2, ordinanza 11 dicembre 2014 – 4 maggio 2015, n. 8870


fonte:http://www.laleggepertutti.it/87382_se-lavvocato-dimentica-di-indicare-la-pec-nellatto
" gli avvocati, i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del tribunale al quale sono assegnati, devono, all’atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso,"
" esigenze di coerenza sistematica e d’interpretazione costituzionalmente orientata inducono a ritenere che, nel mutato contesto normativo, la domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria, innanzi alla quale è in corso il giudizio, ai sensi dell’art. 82 del r.d. n. 37 del 1934, consegue soltanto ove il difensore, non adempiendo all’obbligo prescritto dall’art. 125 c.p.c. per gli atti di parte e dall’art. 366 c.p.c. specificamente per il giudizio di cassazione, non abbia indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine (Cass. S.U. n. 10143/12)."


giovedì 9 luglio 2015

Nesso eziologico e responsabilità aquiliana Corte di Cassazione, sezione III Civile Sentenza 21 aprile – 23 giugno 2015, n. 12923

Nesso eziologico e responsabilità aquiliana
Corte di Cassazione, sezione III Civile
Sentenza 21 aprile – 23 giugno 2015, n. 12923


Corte di Cassazione, sezione III Civile
Sentenza 21 aprile – 23 giugno 2015, n. 12923
Presidente Segreto – Relatore Lanzillo
Svolgimento del processo
Il (omissis) è deceduto G.V. , a seguito di un incidente stradale provocato dall’automobile di T.M. , che ha tamponato il ciclomotore condotto dall’infortunato. La moglie del G. , L.D. , che era ricoverata in Ospedale per un tumore terminale addominale, informata dell’accaduto, ha chiesto di essere dimessa e – giunta a casa – è deceduta la sera dello stesso giorno, per collasso cardiocircolatorio. I figli, G.S. , W. e A. , nonché i fratelli di G.V. , Sa. , M. e G.G. , hanno proposto al Tribunale domanda di risarcimento dei danni nei confronti del responsabile e della sua assicuratrice s.p.a. Liguria Ass.ni. Esperita l’istruttoria nel contraddittorio con la compagnia assicuratrice, il Tribunale ha attribuito l’esclusiva responsabilità del sinistro al T. e ha condannato i convenuti in via solidale al risarcimento dei danni, quantificati in Euro 430.382,97 (detratto l’acconto versato dalla compagnia) in favore dei figli per la morte del padre, e in Euro 99.125,77 complessivi in favore dei fratelli di G.V. , oltre ai due terzi delle spese del giudizio.
I danneggiati hanno proposto appello, facendo valere, fra l’altro: i figli il mancato risarcimento dei danni morali subiti dalla madre per la morte del marito – diritto loro pervenuto iure haereditario – ed il risarcimento dei danni da essi stessi subiti iure proprio per la morte della madre; i fratelli l’insufficiente liquidazione dei danni morali.
Con sentenza 11 – 26 maggio 2011 n. 1556 la Corte di appello di Milano ha riconosciuto il diritto della L. al risarcimento dei danni morali, per il breve tempo in cui è sopravvissuta al marito, danni che ha quantificato in Euro 21.000,00. Ha escluso la sussistenza del nesso causale fra l’incidente stradale e la morte della L. e ha confermato nel resto la sentenza impugnata, ponendo a carico di Gr.Sa. , M. e G. un quarto delle spese di appello.
 G.S. , W. e A. propongono quattro motivi di ricorso per cassazione.
Gli intimati non hanno depositato difese
Motivi della decisione 
1.- Con il primo e il secondo motivo – che possono essere congiuntamente esaminati perché connessi – i figli del defunto G.V. denunciano insufficiente motivazione nei capi in cui la sentenza di appello ha proceduto alla valutazione equitativa dei danni non patrimoniali da essi subiti iure proprio per la morte del padre (primo motivo), nonché alla valutazione equitativa dei danni morali subiti dalla defunta madre in conseguenza della morte del marito, danni che essi hanno fatto valere iure haereditario (secondo motivo).
Addebitano alla sentenza impugnata, nella sostanza, di avere proceduto alla quantificazione dei danni in termini inadeguati, omettendo di tenere conto di dati rilevanti, quali la circostanza che i figli hanno perso contemporaneamente entrambi i genitori e sono stati fortemente traumatizzati dalle modalità tragiche e cruente che hanno caratterizzato la morte del padre.
2.- I motivi sono infondati se non anche inammissibili, in quanto investono valutazioni equitative della Corte di merito, quali sono quelle che attengono alla quantificazione dei danni non patrimoniali.
È noto che tale quantificazione comporta sempre ed inevitabilmente un certo margine di opinabilità del giudizio, a causa dell’impossibilità di tradurre in termini di denaro dolori, traumi e ferite che attengono ai sentimenti delle persone ed ai loro rapporti affettivi, la cui intensità varia anche in relazione alle rispettive sensibilità e condizioni soggettive.
In considerazione di ciò il sistema giuridico si propone di salvaguardare quanto meno il principio della certezza delle valutazioni, mediante il ricorso alle tabelle di valutazione dei danni non patrimoniali, elaborate dalla Corti sulla base delle decisioni assunte nei casi simili; mentre la giurisprudenza sollecita gli interpreti ad uniformarsi ai valori espressi nelle tabelle di un unico Tribunale (per l’appunto il Tribunale di Milano, che ha deciso il caso in esame) (Cass. civ. S.U.).
2.1.- Ciò premesso, i ricorrenti ammettono che le somme liquidate a ciascun figlio per la morte del padre (Euro 130.000,00) sono oggettivamente comprese nell’ambito dei valori tabellari, ma lamentano nella sostanza che esse siano state quantificate in termini lontani dai massimi, nonostante le peculiarità del caso.
Le censure sono inammissibili in quanto attengono a valutazioni essenzialmente in fatto, rimesse alla discrezionalità delle Corti di merito e non suscettibili di riesame in sede di legittimità, e che sono comunque ingiustificate, ove si consideri che le somme liquidate sono tutt’altro che irrisorie e che sono state adeguatamente motivate dalla sentenza impugnata, con riferimento all’età non giovane del genitore (66 anni); al fatto che i tre figli erano tutti adulti (due di essi ultraquarantenni); che nessuno dei tre era più convivente con il padre e che due di essi vivevano addirittura in un’altra città (Sentenza, pag. 15).
Neppure é incongruente od illogica l’attribuzione della stessa somma a tutti i figli, anche alla figlia non trasferitasi altrove, ma comunque non convivente con i genitori, su cui i ricorrenti ripetutamente insistono.
A parte l’impossibilità di istituire una diretta correlazione fra la distanza chilometrica e l’intensità dei vincoli affettivi fra le parti, la valorizzazione della circostanza è inidonea a giustificare le censure proposte, poiché una diversa valutazione avrebbe potuto giustificare l’attribuzione alla figlia “vicina” di una somma maggiore di quella di fatto liquidata (come presumibilmente auspicato dai ricorrenti), ma anche l’assegnazione ai figli “lontani” di una somma inferiore, data l’insussistenza, si ripete, di una diretta correlazione fra i sentimenti personali e la loro traduzione in una somma di denaro determinata e prevedibile a priori.
In sintesi, le censure proposte non sono rilevanti al fine di dimostrare gli asseriti vizi di motivazione e, pur se rivestite di argomentazioni più o meno attendibili dal punto di vista della logica e del buon senso, nella sostanza sollecitano solo una nuova e diversa valutazione di merito in ordine alla quantificazione equitativa dei danni non patrimoniali.
2.2.- Analoghe considerazioni valgono quanto alla liquidazione dei danni non patrimoniali subiti dalla madre dei ricorrenti.
La somma di Euro 21.000,00, attribuita a questo titolo, è effettivamente inferiore ai valori tabellari che, in relazione alla fattispecie.
Resta il fatto che la Corte di appello ha motivato la riduzione dell’importo con il fatto che la donna è sopravvissuta al marito per una sola giornata e che a tale intervallo di tempo va rapportata l’entità del danno.
Trattasi di motivazione che obiettivamente non presta il fianco a censure di illogicità o di incongruenza.
3.- Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano insufficiente o contraddittoria motivazione nel capo in cui la Corte di appello ha escluso la sussistenza del nesso causale fra l’incidente occorso al G. , cui ha fatto seguito la tragica morte di lui, ed il collasso cardiocircolatorio che ha causato la morte della sua vedova, alla fine della stessa giornata.
4. – Il motivo non è fondato.
Con valutazione di merito, anch’essa non suscettibile di riesame in questa sede, la Corte di appello ha escluso il nesso causale fra il comportamento dell’investitore e la morte della moglie dell’infortunato sulla base delle seguenti considerazioni:
a) l’arresto cardiocircolatorio che ha causato la morte della donna non può prescindere dalla grave malattia da cui la stessa era affetta e per la quale era stata ricoverata in ospedale (subocclusione intestinale con metastasi epatiche e peritoneali da carcinoma dell’endometrio), che ne avrebbero comunque causato la morte a breve distanza di tempo;
b) l’arresto cardiocircolatorio è riconducibile alla decisione libera e del tutto personale della donna di lasciare l’ospedale (pur se per ragioni, umanamente comprensibili) e ciò ha comportato il suo allontanamento dal luogo in cui sarebbe stata seguita e monitorata dai sanitari in modo da evitare che l’emozione del momento producesse l’esito letale: scelta autonoma, estranea alla prevedibilità del responsabile del sinistro, a cui va attribuito il ruolo di causa sopravvenuta condizionante il determinarsi dell’evento.
Trattasi di motivazione che manifesta in termini chiari e logicamente coerenti la convinzione della Corte di merito circa l’impossibilità di ravvisare un nesso di regolarità causale fra l’evento luttuoso e l’incidente stradale, quale suo antecedente, dovendo il decesso considerarsi evento indipendente dal comportamento del responsabile del sinistro e avulso da ogni sua possibilità di previsione e di controllo, quale conseguenza immediata e diretta dell’illecito.
La giurisprudenza di questa Corte ha più volte avvertito che, in tema di responsabilità civile extracontrattuale, il nesso causale tra la condotta illecita ed il danno è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., in base al quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla scorta del quale, all’interno della serie causale, occorre dare rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione “ex ante” – del tutto inverosimili. Ne consegue che, ai fini della riconducibilità dell’evento dannoso ad un determinato fatto o comportamento, non è sufficiente che tra l’antecedente ed il dato consequenziale sussista un rapporto di sequenza temporale, essendo invece necessario che tale rapporto integri gli estremi di una sequenza possibile, alla stregua di un calcolo di regolarità statistica, per cui l’evento appaia come una conseguenza non imprevedibile dell’antecedente (Cass. civ. Sez. 3, 31 maggio 2005 n. 11609; Cass. civ. Sez. Lav., 14 aprile 2010 n. 8885; Cass. civ. Sez. 1, 23 dicembre 2010 n. 26042; Cass. civ. Sez. 3, 21 luglio 2011 n. 15991).
Né vale osservare, come fanno i ricorrenti, che in tema di illecito civile il danneggiante risponde anche dei danni imprevedibili.
In ordine al problema in oggetto viene infatti in rilievo una nozione di prevedibilità che è diversa da quella che attiene alle conseguenze dannose, a cui si riferisce l’art. 1225 cod. civ., e che è diversa anche dalla prevedibilità posta a base del giudizio di colpa, poiché essa prescinde da ogni riferimento alla diligenza dell’uomo medio, ossia all’elemento soggettivo dell’illecito, e concerne invece le regole statistiche e probabilistiche necessarie per stabilire il collegamento di un certo evento ad un dato fatto o comportamento. Nell’ambito di tale nozione di prevedibilità, sono risarcibili in tema di responsabilità aquiliana i danni che siano un effetto normale dell’illecito, in base al suddetto criterio della causalità adeguata (Cass. civ. n. 11609/2005, cit.).
Salvo che sia fornita la prova specifica del contrario. Nella specie, pur se non si può in astratto escludere che l’improvvisa morte del marito possa avere provocato alla moglie un trauma psico-emotivo tale da concorrere a provocarne la morte, la circostanza non è stata positivamente accertata; né gli attori in giudizio hanno dedotto e dimostrato specifiche circostanze idonee a fornire guanto meno un principio di prova in tal senso, nei limiti di quanto avrebbe potuto giustificare l’ammissione di apposita CTU per il relativo accertamento, od offrire sufficiente argomento per ricorrere alla prova presuntiva.
In sintesi, la Corte di appello si è uniformata ai principi di legge in tema di causalità adeguata, come esplicitati dalla giurisprudenza sopra citata, ed ha congruamente motivato la sua decisione, in considerazione della mancanza di prova di un concreto ed effettivo collegamento fra l’illecito e il danno lamentato dai ricorrenti.
5.- Il quarto motivo, che attiene alla condanna alle spese, risulta assorbito.
6.- Considerata la natura della controversia e la problematicità delle questioni giuridiche trattate, si ravvisano giusti motivi per compensare le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte di cassazione rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.

Terzo trasportato, cinture di sicurezza, risarcimento Suprema Corte di Cassazione III Sezione Civile Sentenza del 15 maggio 2012, n.7533

Sentenza – Terzo trasportato, cinture di sicurezza, risarcimento
Suprema Corte di Cassazione III Sezione Civile
Sentenza del 15 maggio 2012, n.7533
Ritenuto in fatto
 M.B., nella sua qualita’ di tutore del figlio C.B. convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Treviso, A.D.M., la s.r.l. D.M. Assicurazioni e la s.p.a. W. Assicurazioni per ottenerne la condanna solidale al risarcimento dei danni subiti dal figlio a causa di un sinistro del quale attribuiva la responsabilita‘ al medesimo A.D.M., conducente dell’autovettura sulla quale lo stesso C.B. viaggiava in qualita’ di trasportato.
Si costituivano i convenuti deducendo che la condotta del danneggiato era stata causa esclusiva dell’accaduto, in quanto C.B. si era sporto con tutto il busto fuori dal veicolo sul quale era trasportato.
Il Tribunale rigettava la domanda attrice.
La Corte d’Appello confermava la sentenza di primo grado.
Propone ricorso per cassazione M.B., con tre motivi e presenta memoria.
Gli intimati non svolgono attivita’ difensiva.
Motivi della decisione
Con il primo motivo si denuncia «Violazione o falsa applicazione delle norme ex 360, n. 3, c.p.c. con riferimento agli artt. 2054, 1° comma, c.c. e 41       c.p.; violazione dell’ art. 360 n. 5 c.p.c. per contraddittoria motivazione. »
Secondo parte ricorrente la Corte d’ Appello, prima di valutare se l’azione omessa (il non avere arrestato il veicolo o il non aver deviato verso il centro della strada oppure, ancor prima, il non aver imposto l’uso delle cinture di sicurezza) fu effettivamente idonea ad impedire l’evento (e quindi l’urto del B. contro il palo) avrebbe dovuto chiedersi se l’azione che ci si sarebbe potuta attendere dal conducente sarebbe stata di per se’ idonea ad impedire l’evento.
A questa stregua la Corte avrebbe dovuto prima valutare l’esistenza del nesso causale tra l’omissione e l’evento e poi considerare se fosse stata sussistente una idonea prova liberatoria in termini di prevedibilita’ ed evitabilita’ dell’evento stesso.
Con il secondo motivo si lamenta « Violazione o falsa applicazione delle norme ex 360, n. 3, c.p.c., con riferimento agli artt. 2054, 1° comma, c.c. e 169 c.d.s.; violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. per contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, riguardante il tempo trascorso dalla percezione del pericolo da parte del D.M. e l’evento, e dunque riguardante la possibilita’ di porre in essere manovre eversive; erroneo superamento della presunzione diresponsabilita‘ di cui all’art. 2054, 1° comma, c.c.».
Secondo parte ricorrente la Corte ha falsamente applicato il primo comma dell’art. 2054 c.c. ed ha violato l’art. 169 del codice della strada ritenendo, in maniera del tutto erronea e con motivazione contraddittoria, superata la presunzione dello stesso art. 2054 c.c.
Con il terzo motivo si denuncia «Violazione o falsa applicazione delle norme ex 360, n. 3 c.p.c. con riferimento agli e artt. 116 c.p.c. e 2733 c.c.; violazione dell’art. 360, n. 5 c.p.c. per omessa motivazione su un punto decisivo della controversia,riguardante il valore probatorio della confessione resa dal convenuto D.M.»
Secondo parte ricorrente la Corte ha completamente omesso di attribuire alla confessione del D.M. il giusto valore di prova legale di prova legale valorizzando invece le testimonianze, ma omettendo completamente ogni riferimento al valore confessorio delle dichiarazioni rese dal D.M. in sede di interrogatorio formale.
I tre motivi, che per la loro stretta connessione devono essere congiuntamente esaminati, sono fondati.
Qualora infatti la messa in circolazione dell’autoveicolo in condizioni di insicurezza (e tale e’ la circolazione senza che iltrasportato abbia allacciato le cinture di sicurezza), sia ricollegabile all’azione od omissione non solo del trasportato, ma anche del conducente (che prima di iniziare e proseguire la marcia deve controllare che essa avvenga in conformita’ della normali norme di prudenza e sicurezza), fra costoro si e’ formato il consenso alla circolazione medesima con consapevole partecipazione di ciascuno alla condotta colposa dell’altro ed accettazione dei relativi rischi; pertanto si verifica un’ipotesi dicooperazione nel fatto colposo, cioe’ di cooperazione nell’azione produttiva dell’evento (diversa da quella in cui distinti fatti colposi convergano autonomamente nella produzione dell’evento). In tale situazione, deve ritenersi risarcibile, a carico delconducente del suddetto veicolo e secondo la normativa generale degli artt. 2043, 2056, 1227 c.c., anche il pregiudizio all’integrita’ fisica che il trasportato abbia subito in conseguenza dell’incidente, tenuto conto che il comportamento dello stesso, nell’ambito dell’indicata cooperazione, non puo’ valere ad interrompere il nesso causale tra la condotta delconducente ed il danno, ne’ ad integrare un valido consenso alla lesione ricevuta, vertendosi in materia di diritti indisponibili (Cass., 11 marzo 2004, n. 4993).
Nel caso in esame la Corte d’Appello, dopo aver accertato il mancato uso delle cinture di sicurezza da parte del B., non poteva escludere il nesso di causalita’ tra l’omissione del conducente e l’evento lesivo subito dello stesso B.
L’uso della cintura avrebbe infatti impedito a quest’ultimo di sporgersi dal finestrino e di subire il relativo danno.
La corte territoriale ha poi ritenuto che sia l’imprevedibilita’ e la repentinita’ della condotta di C.B., sia il brevissimo lasso temporale intercorso fra l’uscita dall’abitacolo e la collisione erano insufficienti a consentire al Q. di ritrarre il ragazzo all’interno dell’auto. Tale circostanza per la Corte e’ decisiva considerando il fatto che il conducente della vettura, una volta intimato al trasportato di rientrare nell’abitacolo poteva aspettarsi un ravvedimento dello stesso.
La motivazione non puo’ essere condivisa in quanto illogica e contraddittoria poiche’ esclude la responsabilita‘ delconducente ritenendo che egli abbia fornito la prova liberatoria di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno.
Nella fattispecie in esame invece l’ampiezza della carreggiata era tale da consentire al conducente di allontanarsi dal margine destro senza invadere l’altra corsia.
Inoltre dalla dichiarazione confessoria riportata dal convenuto D.M. risulta che egli aveva visto sporgersi dal finestrino C.B. e lo aveva richiamato; dopo, guardando la strada aveva notato il palo dell’illuminazione collocato fuori dal marciapiedi ad una distanza inferiore a 300 metri.
In questo margine di tempo era possibile sterzare a sinistra o comunque mettere in atto una manovra d’emergenza per evitare l’impatto.
In conclusione, per tutte le ragioni che precedono, il ricorso deve essere accolto con conseguente cassazione dell’impugnata sentenza e rinvio alla Corte d’Appello di Venezia che, in diversa composizione, decidera’ anche sulle spese nel giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia alla Corte d’Appello di Venezia in diversa composizione, anche per le stese del giudizio in cassazione