lunedì 12 dicembre 2011

Opposizione decreto ingiuntivo: si definitivo della Camera alla nuova legge sui termini di costituzione e comparizione

La Camera ha approvato in via definitiva il disegno di legge, già approvato in un testo unificato dalla 2ª Commissione permanente del Senato (vedi l’articolo su questo sito), recante Modifica dell’articolo 645 e interpretazione autentica dell’articolo 165 del codice di procedura civile in materia di opposizione al decreto ingiuntivo (C. 4305).
Il provvedimento ridefinisce i termini per le opposizioni a decreto ingiuntivo, ponendo così fine ai dubbi e alle incertezze interpretative scaturite dall’overruling (letteralmente: cambio delle regole in corso d’opera) determinato dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza 19426/2010 che, intervenendo sui termini di costituzione dell’opponente nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ha sovvertito l’orientamento giurisprudenziale fino ad allora dominante dell’art. 645, co. 2, c.p.c.
Si ricorda come, prima della citata sentenza della Cassazione, si sosteneva comunemente che l’art. 645, co. 2, c.p.c., il quale dispone la riduzione alla metà dei termini di comparizione, senza nulla prevedere in ordine ai termini di costituzione, dovesse essere interpretato nel senso di ritenere rimessa alla mera facoltà dell’opponente la scelta di assegnare all’opposto un termine di comparizione inferiore a quello ordinario di cui all’art. 163bis c.p.c. e che solo in caso di esercizio di tale facoltà anche i termini di costituzione si dimezzavano.
Su tale impianto interpretativo sono poi giunte le Sezioni Unite che hanno sovvertito l’orientamento dominante ricordato, affermando un principio rivoluzionario in materia. Con la sentenza 19426/2010, il Supremo Collegio ha infatti stabilito che «non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia stata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà». Con tale pronuncia viene dunque sancito il dimezzamento automatico dei termini di costituzione, sia per l’opponente che per l’opposto, per effetto della mera proposizione dell’opposizione, disancorando pertanto la dimidiazione dei suddetti termini dal caso in cui all’opposto fosse stato assegnato un termine a comparire inferiore a quello ordinario. Il nuovo principio affermato ha ingenerato dubbi e severe preoccupazioni, soprattutto in ordine alle cause pendenti, apparendo gravemente lesiva delle garanzie giurisdizionali del giusto processo l’applicazione in danno delle parti di preclusioni e decadenze non prospettabili al momento dell’instaurazione del giudizio e conseguenti ad un intervenuto mutamento giurisprudenziale. In applicazione del revirement operato dalla Corte, infatti, le costituzioni in giudizio dell’opponente successive al quinto giorno dalla notificazione dell’opposizione, tempestive secondo il diritto vivente al tempo in cui sono avvenute, devono considerarsi tardive, con conseguente improcedibilità dell’opposizione ed esecutività del decreto ingiuntivo a norma dell’art. 647 c.p.c.
Con il disegno di legge votato in Parlamento e condiviso dal Consiglio Nazionale Forense, il quale ha più volte sollecitato un intervento chiarificatore del legislatore, i problemi applicativi evidenziati sono risolti alla radice. In particolare, il provvedimento, che consta di soli due articoli, con il primo di detti articoli incide sulla disciplina generale del procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, sopprimendo la previsione di cui al comma 2 dell’art. 645 c.p.c. relativa alla riduzione a metà dei termini di comparizione, che ha dato origine alle divergenti interpretazioni giurisprudenziali. L’art. 2, poi, reca una norma interpretativa applicabile ai procedimenti in corso che conferma l’orientamento consolidato della Cassazione precedente alla sentenza delle Sezioni Unite 19246/2010. L’articolo prevede infatti che per i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della legge, l’art. 165, co. 1, c.p.c. deve essere interpretato nel senso che la riduzione del termine di costituzione dell’attore ivi prevista si applica, in caso di opposizione a decreto ingiuntivo, solo se l’opponente abbia assegnato all’opposto un termine di comparizione inferiore a quello ordinario previsto dall’art. 163bis, co. 1, c.p.c.

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domenica 4 dicembre 2011

La costituzione dell’attore entro dieci giorni: dalla prima o dall’ultima notificazione? Rinvio alle Sezioni Unite. Inoltre, Cassazione civile , SS.UU., sentenza 18.05.2011 n° 10864

La costituzione dell’attore entro dieci giorni: dalla prima o dall’ultima notificazione? Rinvio alle Sezioni Unite.

di Luigi Viola (fonte Altalex)

Sommario: 1. Premessa 2. Il problema 3. La tesi estensiva (slittamento in avanti del dies a quo) 4. La tesi restrittiva (a formazione progressiva) 5. Possibile soluzione in attesa delle Sezioni Unite.


1. Premessa

L’attore è tenuto, ex art. 165 c.p.c., a costituirsi entro dieci[1] giorni “dalla notificazione della citazione al convenuto”.

Con tale atto, la parte si rende giuridicamente presente nel processo, con la conseguenza di non poter essere dichiarata contumace[2]; si realizza in questo modo il contraddittorio in concreto, coerentemente con l’art. 101 c.p.c. e 24 Cost.

La forma della costituzione è per l’attore il deposito della nota di iscrizione a ruolo e del proprio fascicolo (con la procura[3]), contenete l’originale della citazione ed i documenti offerti in comunicazione[4]; se viene depositata la copia dell’atto di citazione e non l’originale (c.d. iscrizione a ruolo su velina) si verifica una mera irregolarità, inidonea a produrre nullità della sentenza[5]; allo stesso modo non è necessario depositare la procura in originale[6].

Il convenuto si deve costituire venti giorni prima della prima udienza di comparizione fissata dall’attore ovvero, se l’udienza è stata differita dal giudice istruttore a norma dell’art. 168bis, comma 5 c.p.c., almeno venti giorni prima di tale udienza; tuttavia, se una delle parti si è costituita nel termine assegnatole, l’altra parte può costituirsi in giudizio successivamente e fino alla prima udienza di comparizione e trattazione, restando ferme comunque, ex art. 171 c.p.c., le decadenze comminate ex art. 167 c.p.c. ed art. 38 c.p.c.[7].

2. Il problema

Sebbene il quadro così delineato sembri abbastanza chiaro, dubbi interpretativi sorgono con riferimento al dies a quo relativamente alla costituzione dell’attore, nel caso in cui sia necessaria una notificazione a più soggetti e questa non avvenga contestualmente.

Da quando decorre il termine dei dieci giorni per la costituzione dell’attore nei casi di più notificazioni verso più contraddittori? Dalla prima notificazione ovvero dall’ultima?

Se si fa decorrere dalla prima notificazione, l’attore dovrà poi integrare la domanda con il deposito dell’originale, quando “sono terminate le notifiche” (entro dieci giorni dall’ultima notificazione); se si fa decorrere dall’ultima notificazione, la costituzione sarà completa, senza ulteriori integrazioni.

Il problema si pone in quanto il legislatore non affronta expressis verbis la questione:

-l’art. 165 comma 1 c.p.c. recita che l’attore si deve costituire “entro dieci giorni dalla notificazione al convenuto”; con ciò, dunque, il riferimento è all’ipotesi di un solo convenuto;

-l’art. 165 comma 2 c.p.c. recita che, nel caso di notifiche a più persone, l’originale della citazione “deve essere inserito nel fascicolo entro dieci giorni dall’ultima notificazione[8]”; con ciò, pertanto, il riferimento è ad una pluralità di convenuti, ma si precisa che non si tratta di costituzione, quanto piuttosto “di inserire” l’originale nel fascicolo che, allora, dovrebbe essere già stato depositato; in pratica: pur riferendosi alla pluralità di “soggetti passivi”, tale da far pensare al dies a quo coincidente con l’ultima notificazione, comunque, non si “parla” di costituzione, ma di “inserimento dell’originale” in un fascicolo già esistente.

Il problema posto, d’altronde, non è privo di rilievi pratici, soprattutto ove si pensi all’art. 348 c.p.c. che commina l’improcedibilità dell’appello (anche d’ufficio) se l’appellante “non si costituisce in termini”.

Il problema è particolarmente dibattuto in dottrina[9]; altresì, la recente giurisprudenza è stata costretta a rimettere la questione alle Sezioni Unite[10], in considerazione dell’emersione di orientamenti contrastanti.

3. La tesi estensiva (slittamento in avanti del dies a quo)

Secondo una prima opzione interpretativa[11], il dies a quo per la costituzione dell’attore decorre, nel caso di più notificazioni, dall’ultima delle notifiche.

In pratica, si realizzerebbe una sorta di “sfalsamento in avanti” del dies a quo, a decorrere dall’ultima notificazione.

A favore di tale opzione deporrebbero vari rilievi:

-la fase della notificazione è un procedimento e, come tale, deve essere considerato unitario; se, pertanto, la notificazione è unitaria, allora, non è possibile immaginare una formazione progressiva, in cui l’attore si costituisce dieci giorni dopo la prima notifica, ma deve poi necessariamente integrare la domanda con le altre notifiche, depositando l’originale, ex art. 165 comma 2 c.p.c.; insomma, se il procedimento è unitario, bisogna fare tutto in modo unitario;

-il comma 1 dell’art. 165 c.p.c. non permette di affermare che, nel caso di più notificazioni, il dies a quo deve essere individuato nella prima notificazione; anzi, il comma 2 del medesimo articolo, con gli incisi “se la notificazione è notificata a più persone” e “dall’ultima notificazione” sembra suggerire all’interprete di cristallizare il dies a quo dall’ultima notifica e non dalla prima[12];

-è vero che l’attore può costituirsi anche quando il rapporto processuale non è completato verso tutti i convenuti, ma ciò servirebbe solo a dire che l’attore può costituirsi anche prima, senza escluderne la costituzione successiva; id est: affermare che ci si può costituire anche prima dei dieci giorni non vuol dire ritenere che ci si debba costituire entro dieci giorni dalla prima notificazione;

-infine, anche il ragionamento per analogia (analogia iuris) deporrebbe nel medesimo senso, ove si pensi al ricorso per Cassazione, ex art. 369 c.p.c., laddove il dies a quo decorre espressamente dall’ultima notificazione[13].

Alla luce di tali rilievi, pertanto, nel caso di più notificazioni, il dies a quo, inerente i dieci giorni per la costituzione dell’attore, andrebbe individuato nell’ultima notificazione e non nella prima.

4. La tesi restrittiva (a formazione progressiva)

Secondo altra opzione interpretativa[14], il dies a quo, nel caso di più notificazioni, ai fini della costituzione dell’attore, decorrerebbe dalla prima notifica e non dall’ultima, sulla falsariga di una fattispecie a formazione progressiva, dove bisogna prima costituirsi e poi integrare.

A favore di questa seconda opzione interpretativa, deporrebbero i rilievi che:

-la notificazione non è un procedimento unitario, ma è il frutto di singoli procedimenti, con la conseguenza che è possibile immaginare una formazione progressiva; prova che si tratta di singoli procedimenti è data dal fatto che possono emergere singole conseguenze processuali;

-l’art. 165 comma 2 c.p.c. afferma che “l’originale della citazione deve essere inserito nel fascicolo entro dieci giorni dall’ultima notificazione”; pertanto si chiede un inserimento in un fascicolo già esistente che non può che essere quello già depositato con la costituzione; id est: se viene chiesto “l’inserimento” in un fascicolo, vuol dire che quest’ultimo deve essere già stato depositato; diversamente opinando si opterebbe per un’interpretazione contro la lettera della legge;

-non può essere esteso analogicamente quanto previsto dall’art. 369 c.p.c. anche all’art. 165 c.p.c., in quanto il ricorso per Cassazione ha delle caratteristiche particolari (sia con riguardo alla forma del ricorso, sia con riferimento al suo contenuto) che ne inibiscono l’estensione; anzi, al contrario, proprio il fatto che il legislatore all’art. 369 c.p.c. abbia specificamente affrontato il problema de quo risolvendolo in favore dell’ultima notificazione e non abbia fatto lo stesso con riguardo all’art. 165 c.p.c. deporrebbe nel senso del brocardo si voluit dixit: il legislatore avrebbe dovuto espressamente prevedere un rinvio; d’altronde, tali norme vanno interpretate in modo rigoroso, essendo eccezionali tanto da incidere sulla improcedibilità, ex art. 348 c.p.c.;

-infine, un possibile slittamento riguarderebbe al più l’attività del cancelliere, ex art. 74 disp. att. c.p.c.; difatti, il cancelliere deve controllare la regolarità dell’atto e può farlo solo con riferimento al momento dell’integrazione, ex art. 165 comma 2 c.p.c., e non al momento della costituzione.

Alla luce di ciò, l’attore dovrebbe costituirsi entro dieci giorni dalla prima notificazione e, successivamente, entro dieci giorni dall’ultima notificazione, depositare l’originale della citazione stessa; insomma, in questo modo, la costituzione dell’attore sarebbe a formazione progressiva.


5. Possibile soluzione in attesa delle Sezioni Unite

In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite[15], una soluzione mediana e coerente con il sistema potrebbe emergere dall’esaltazione degli artt. 121-156 c.p.c., in base ai quali, in sede processuale di valutazione degli atti, bisogna privilegiare la sostanza sulla forma e, dunque, ritenere valido l’atto nei casi in cui abbia raggiunto il suo scopo.

Ebbene, lo scopo della costituzione dell’attore va rinvenuto nell’esigenza di assicurare un contraddittorio in concreto e di far capire al convenuto “che si fa sul serio”; tale scopo viene raggiunto, sia che il dies a quo coincida con l’ultima notificazione e sia che si riferisca alla prima notificazione.

D’altronde, vengono in entrambi i casi assicurati i principi inderogabili del contraddittorio, ex art. 101 c.p.c. ed art. 24 Cost.

La costituzione così sarebbe entro i termini in entrambi i casi (tesi estensiva oppure restrittiva), potendo scegliere l’attore se costituirsi “esaustivamente” entro dieci giorni dall’ultima notificazione, oppure “a formazione progressiva” (ovvero prima depositando alcuni atti e poi integrando, ex art. 165 comma 2 c.p.c.).

Ad ogni modo, comunque, con il novellato art. 153 comma 2 c.p.c. sarà possibile chiedere la rimessione in termini[16].

_______________

[1] Cinque giorni nel caso di abbreviazione dei termini.

[2] LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 1984, 17.

[3] Aggiornata alla Legge 69/2009 ed al D.Lgs. 28/2010.

[4] Così SATTA, Diritto processuale civile, Padova, 1959, 236.

[5] Secondo Cassazione civile, Sez. I, 13 agosto 2004, n. 15777, in Arch. Giur. Circolaz., 2005, 756, la costituzione in giudizio dell'attore avvenuta mediante deposito in cancelleria, oltre che della nota di iscrizione a ruolo, del proprio fascicolo contenente, tuttavia, copia dell'atto di citazione, anziché - come previsto dall'art. 165 c.p.c. l'originale dello stesso (nella specie depositato una volta scaduto il termine prescritto), costituisce mera irregolarità rispetto alla modalità stabilita dalla legge, ma, non arrecando veruna lesione sostanziale ai diritti della parte convenuta, non determina nullità della sentenza conclusiva del giudizio di primo grado.

[6] Secondo Cassazione civile, Sez. I, 5 febbraio 2008, n. 2744, in Mass. Giur. It., 2008, a norma dell'art. 165 cod. proc. civ., l'attore deve ritenersi validamente costituito in giudizio anche se, all'atto del deposito in cancelleria della nota di iscrizione a ruolo e del proprio fascicolo contenente la procura, quest'ultima non sia in originale; secondo l'art. 156 cod. proc. civ., infatti, non può pronunciarsi la nullità di alcun atto del processo, per inosservanza delle forme, se la nullità non è comminata dalla legge, e l'art. 125, secondo comma, cod. proc. civ. richiede soltanto, per la validità della procura, che questa sia stata rilasciata anteriormente all'iscrizione a ruolo, ma non anche che essa venga depositata in originale.

[7] PUNZI, Il processo civile, Torino, 2010, II, 39.

[8] Oppure dieci giorni nel caso di abbreviazione dei termini.

[9] MONTESANO-ARIETA, Trattato di diritto processuale civile, II, Padova, 2001, 68; MANDRIOLI, Diritto processuale civile, II, Torino, 43.

[10] Cassazione civile, sez. III, ordinanza 5 agosto 2010, n. 18156, in Massimario.it, 29, 2010.

[11] Tra gli altri, PUNZI, già cit.; si legge in Cassazione civile, Sez. III, 18 gennaio 2001, n. 718, in Mass. Giur. It., 2001, che nel caso di citazione di più persone, infatti, il 2° comma dell'art. 165 c.p.c., nel disporre che "l'originale della citazione deve essere inserito nel fascicolo entro dieci giorni dall'ultima notificazione", non soltanto precisa che, in tal caso, si verifica una protrazione elle formalità, di cui la costituzione dell'attore si compone; ma è altrettanto significativo del fatto che il differimento di questa modalità implica anche il logico differimento del termine stesso di costituzione a decorrere dall'ultima notificazione.

[12] Nei casi di più notificazioni.

[13] Anche nel nuovo processo amministrativo il dies a quo sarà individuato nell’ultima notificazione, ex D.Lgs. 104/2010.

[14] REDENTI, Diritto processuale civile, Milano, 1997, II,187; si legge in Cassazione civile, Sez. III, 25 gennaio 2010, n. 1310 che in relazione al processo civile di cognizione anche dopo l'introduzione del modello processuale speciale del c.d. rito societario, nel caso di chiamata in giudizio di più convenuti, il termine di dieci giorni per la costituzione dell'attore, di cui all'art. 165 c.p.c., comma 1 si consuma con il decorso di dieci giorni dal perfezionamento della prima notificazione verso uno dei convenuti dell'atto di citazione, conformemente alla lettera e alla ratio della norma del comma 2 dello stesso articolo, in base alla quale, entro dieci giorni dall'ultima notifica di esso, l'originale di tale atto va inserito nel fascicolo, il che presuppone l'avvenuta costituzione. La costituzione entro il termine di dieci giorni dalla prima notificazione - rispetto alla quale il deposito dell'originale entro i dieci giorni dall'ultima notificazione assume la funzione di adempimento necessario per escludere che i suoi effetti si risolvano - può avere luogo con il deposito di una copia della citazione, estesa anche alla procura, se essa sia stata rilasciata a margine od in calce, ovvero con il deposito di tale copia unitamente alla procura (generale o speciale) rilasciata per atto pubblico o scrittura privata. Nel giudizio di appello, essendo la costituzione tempestiva dell'appellante prevista a pena di improcedibilità, il mancato deposito della copia della citazione entro il suddetto termine decorrente dalla prima notificazione comporta l'improcedibilità dell'appello.

[15] Si veda la nota n. 10.

[16] Alla luce del principio costituzionale del giusto processo, va escluso che abbia rilevanza preclusiva l'errore della parte la quale abbia fatto ricorso per cassazione facendo affidamento su una consolidata, al tempo della proposizione dell'impugnazione, giurisprudenza di legittimità sulle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, e che la sua iniziativa possa essere dichiarata inammissibile o improcedibile in base a forme e termini il cui rispetto, non richiesto al momento del deposito dell'atto di impugnazione, discenda dall'overruling; il mezzo tecnico per ovviare all'errore oggettivamente scusabile è dato dal rimedio della rimessione in termini (così recita Cassazione civile, Sez. II, Ord., 13 luglio 2010, n. 16471).





In caso di notificazione a più parti, il termine di dieci giorni entro il quale l’attore o l’appellante devono costituirsi, decorre dalla prima notificazione, non dall’ultima.

NDR: la sentenza de qua va segnalata per importanza soprattutto sul piano pratico; bisognerà vedere cosa accadrà per le cause già instaurate seguendo un orientamento giurisprudenziale diverso da quello condiviso dalle Sezioni Unite; è probabile che si renderà applicabile l'istituto della rimessione in termini ex art. 153 comma 2 c.p.c., seppur in forma c.d. virtuale; si evidenzia, ad ogni modo, che sul tema delle sopravvenienze giurisprudenziali (seppur applicato al termine per l'opposizione a decreto ingiuntivo) si attende una pronuncia delle Sezioni Unite

(ordinanza 6514/2011).

Corte Costituzionale, la decorrenza del termine per la costituzione in appello

Costituzione in appello: il termine decorre dal perfezionamento della notifica e non dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.



La corte di Cassazione conferma l’ orientamento secondo cui:

la distinzione dei momenti di perfezionamento delle notifiche per il notificante ed il destinatario dell’atto, con il riferimento al momento della consegna dell’atto per la notifica, trova applicazione solo quando dal protrarsi del procedimento notificatorio potrebbero verificarsi conseguenze negative per il notificante;
tale distinzione non si applica quando una norma preveda che un termine a suo carico debba iniziare a decorrere dal tempo dell’avvenuta notificazione.
Detto orientamento appare conforme alla “ratio” delle decisioni della Corte costituzionale, le quali hanno inteso unicamente evitare che si possano verificare decadenze o altri effetti pregiudizievoli per il notificante in conseguenza di fatti a lui non ascrivibili ma ascrivibili al procedimento notificatorio ed ai suoi esecutori, essendo restato fermo il principio che il consolidamento della notifica per il notificante dipende dal perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti del destinatario, con la conseguenza che solo da tale momento possono decorrere i termini, quali quelli per la costituzione in appello o il deposito del ricorso, i quali richiedono il perfezionamento dell’intero processo notificatorio, essendo correlati ad adempimenti che lo presuppongono (così, in particolare, Cass. 21 maggio 2007, n. 11783 cit.).
Principio, quest’ultimo, sancito espressamente dall’art. 4, comma 4, della legge n. 890 del 1982 per le notificazioni a mezzo posta ma avente valenza generale, secondo il quale i termini che decorrono dalla notificazione si computano dalla data di consegna dell’atto al destinatario (alla quale va equiparata la sua conoscenza legale da parte del notificando ai sensi del successivo art. 8).
Normativa rimasta ferma anche dopo che la legge n. 263 del 2005, modificando il previgente testo dell’art. 149 c.p.c., vi ha aggiunto un terzo comma con la statuizione – attuativa di quanto statuito dalla Corte costituzionale e pertanto da interpretarsi in relazione alla sua ratio nei sensi sopra indicati – secondo la quale “la notifica si perfeziona,per il soggetto notificante al momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario e, per il destinatario, dal momento in cui lo stesso ha la legale conoscenza dell’atto”.
Cassazione civ., sent. 12 novembre 2008, n. 27010

Svolgimento del processo

1 La F. s.p.a., G. Cristina e S. Alberto, nelle rispettive vesti di editore, giornalista e direttore responsabile de “La X di Treviso”, con citazione del novembre 2001 proposero appello avverso la sentenza n. 1349 del 2000 del Xle di Treviso, con la quale erano stati condannati al risarcimento dei danni nei confronti del Comune di Treviso. L’atto di appello veniva notificato a mezzo del servizio postale dall’ufficiale giudiziario, al quale la notifica era stata richiesta in data 10 novembre 2001, con consegna del plico raccomandato in data 13 novembre 2001. Gli appellanti si costituivano in data 21 novembre 2001. Nel contraddittorio con la controparte, che proponeva appello incidentale, la Corte di appello di Venezia, con sentenza depositata il 10 novembre 2004 e notificata in data 21 marzo 2005, dichiarava improponibile l’appello per il mancato rispetto, da parte degli appellanti, del termine per la costituzione. Avverso tale sentenza la F. s.p.a., G. Cristina e S. Alberto hanno proposto ricorso a questa Corte, con atto notificato il 17 maggio 2005 al Comune di Treviso, il quale resiste con controricorso notificato il 24 giugno 2005.
Motivi della decisione

1 Nel ricorso si premette che la sentenza impugnata ha dichiarato l’improcedibilità dell’appello per essersi gli appellanti costituiti oltre il termine di dieci giorni previsto dalla legge, facendolo decorrere, in applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 2002 – applicata retroattivamente alla fattispecie, svoltasi nel novembre 2001 – dalla data della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario notificante e non dal momento della ricezione dell’atto da parte del destinatario.
La decisione viene censurata innanzitutto per avere applicato la sentenza della Corte costituzionale ad una fattispecie ad essa anteriore, in relazione alla quale non era in contestazione la regolarità della costituzione, con il conseguente effetto preclusivo all’applicazione della pronuncia d’incostituzionalità. Si deduce, al riguardo, che una diversa interpretazione contrasterebbe con il principio del giusto processo stabilito dall’art. 111 Cost..
La decisione viene inoltre censurata per avere affermato, in ordine agli effetti della dichiarazione d’incostituzionalità, che non sarebbe possibile distinguere fra effetti favorevoli ed effetti sfavorevoli al notificante, derivando dal perfezionamento della notifica per quest’ultimo dal momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario il decorso da tale data del termine per costituirsi. Al riguardo si deduce che, sulla base di un’attenta esegesi della sentenza n. 477 del 2002 della Corte costituzionale, gli “effetti caducatori” della pronuncia della Corte non concernono il perfezionamento del procedimento di notificazione (che presuppone il ricevimento da parte del destinatario), con la conseguenza che il termine per la costituzione decorre dalla data del ricevimento da parte del destinatario.
2 In via pregiudiziale vanno dichiarate infondate le eccezioni d’inammissibilità del ricorso formulate dal controricorrente per mancanza di specialità delle procure – quella dei ricorrenti S. e G. collocata a margine del ricorso e quella della società F. in calce al ricorso, su foglio aggiunto e senza data – e per genericità dei motivi del ricorso.
Questa Corte, infatti, ha costantemente affermato il principio, che in questa sede va riaffermato, secondo il quale le procure conferite a margine o in foglio separato unito al ricorso, per tale collocazione, salvo che dal testo non risulti espressamente il contrario (il che nel caso di specie non accade) debbono intendersi conferite per il giudizio di cassazione e soddisfano il requisito della specialità previsto dall’art. 365 c.p.c. anche se non contengono alcun riferimento alla sentenza impugnata con il ricorso, mentre la mancanza di data non produce nullità della procura, atteso che la posteriorità del rilascio alla sentenza impugnata si ricava dalla connessione con il ricorso alla quale accede (Cass. sez. un., 10 marzo 1998, n. 2642; Cass. 29 ottobre 2001, n. 13414; 5 aprile 2002, n. 4849; 17 novembre 2003, n. 17397; 25 luglio 2006, n. 16907).
Quanto alla dedotta genericità del ricorso, questa non sussiste contenendo il motivo con esso formulato specifiche censure alla sentenza impugnata.
3 Venendo all’esame del ricorso, esso è fondato nei sensi appresso indicati, pur dovendosi ritenere l’applicabilità alla fattispecie della pronuncia d’illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 477 del 2002 della Corte costituzionale, in quanto la regola “tempus regit actum” riguardante la successione delle leggi nel tempo, non si applica alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, poiché questa non è una forma di abrogazione, ma una conseguenza dell’invalidità della legge, che ne comporta l’efficacia retroattiva, nel senso che investe anche le fattispecie anteriori alla pronuncia di incostituzionalità, con i limiti derivanti dal coordinamento tra il principio enunciato dagli artt. 136 Cost. e 30 della legge 11 marzo 1953 n. 87 e le regole che disciplinano il definitivo consolidamento dei rapporti giuridici, con il graduale formarsi del giudicato e delle preclusioni nell’ambito del processo (Cass. 7 maggio 2003, n. 6926): giudicato e preclusioni insussistenti nel caso di specie.
La Corte di appello con la sentenza impugnata ha dichiarato improcedibile l’appello, ai sensi dell’art. 348 c.p.c., per avere gli appellanti consegnato l’atto di appello all’ufficiale giudiziario per la notifica in data non posteriore al 10 novembre 2001 ed essersi essi costituiti in data 21 novembre 2001, dopo il decorso del termine di dieci giorni dalla notifica dell’atto di appello, consegnato al destinatario in data 13 novembre 2001. In proposito la Corte ha ritenuto di fare in tal modo applicazione dell’art. 149 c.p.c., quale risultante dalla declaratoria d’illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 477 del 2002 della Corte costituzionale.
La decisione della Corte di appello è errata. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 477 del 2002, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 149 c.p.c. e 4, comma 3, della legge n. 890 del 1982, nella parte in cui prevedeva che la notificazione a mezzo posta si perfezionasse, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario. Ciò in quanto ha ritenuto “palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante, che un effetto di decadenza possa discendere dal ritardo nel compimento di un’attività riferibile” a soggetti diversi dal notificante stesso. Con la successiva sentenza n. 28 del 2004 la stessa Corte costituzionale ha ribadito il principio generale secondo il quale va distinto il momento di perfezionamento della notifica per il notificante ai fini delle decadenze a carico del medesimo, dal momento di perfezionamento della notifica anche per il destinatario, fermo restando che “la produzione degli effetti che alla notificazione stessa sono ricollegati è condizionata al perfezionamento del procedimento notificatorio anche per il destinatario”.
Questa Corte, peraltro, ha già statuito (Cass. 26 febbraio 2008, n. 4996; 21 maggio 2007, n. 11783; 11 maggio 2007, n. 10837; SS.UU. 13 gennaio 2005, n. 458; Cass. 8 settembre 2004, n. 18087; 14 luglio 2004, n. 13065; 17 luglio 2003, n. 11201) – con giurisprudenza alla quale questo collegio ritiene giusto conformarsi dandole continuità – che la distinzione dei momenti di perfezionamento delle notifiche per il notificante ed il destinatario dell’atto, con il riferimento al momento della consegna dell’atto per la notifica, trova applicazione solo quando dal protrarsi del procedimento notificatorio potrebbero verificarsi conseguenze negative per il notificante e non, invece, quando una norma preveda che un termine a suo carico debba iniziare a decorrere dal tempo dell’avvenuta notificazione. Tali pronunce sono state emesse, specificamente, le prime tre proprio riguardo al termine per la costituzione dell’appellante, le altre riguardo al termine per il deposito del ricorso per cassazione, termini con riferimento ai quali è stato affermato che la notificazione deve ritenersi perfezionata, ai fini dell’inizio del loro decorso, anche per il notificante (appellante o ricorrente) dal momento del perfezionamento del processo notificatorio nei confronti dell’ultimo dei destinatari della notificazione. Analogo orientamento ha assunto, riguardo ai termini per il deposito del ricorso, il Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. V, 29 novembre 2005, n. 6774).
Detto orientamento appare conforme alla “ratio” delle decisioni della Corte costituzionale, le quali hanno inteso unicamente evitare che si possano verificare decadenze o altri effetti pregiudizievoli per il notificante in conseguenza di fatti a lui non ascrivibili ma ascrivibili al procedimento notificatorio ed ai suoi esecutori, essendo restato fermo il principio che il consolidamento della notifica per il notificante dipende dal perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti del destinatario, con la conseguenza che solo da tale momento possono decorrere i termini, quali quelli per la costituzione in appello o il deposito del ricorso, i quali richiedono il perfezionamento dell’intero processo notificatorio, essendo correlati ad adempimenti che lo presuppongono (così, in particolare, Cass. 21 maggio 2007, n. 11783 cit.). Principio, quest’ultimo, sancito espressamente dall’art. 4, comma 4, della legge n. 890 del 1982 per le notificazioni a mezzo posta ma avente valenza generale, secondo il quale i termini che decorrono dalla notificazione si computano dalla data di consegna dell’atto al destinatario (alla quale va equiparata la sua conoscenza legale da parte del notificando ai sensi del successivo art. 8). Normativa rimasta ferma anche dopo che la legge n. 263 del 2005, modificando il previgente testo dell’art. 149 c.p.c., vi ha aggiunto un terzo comma con la statuizione – attuativa di quanto statuito dalla Corte costituzionale e pertanto da interpretarsi in relazione alla sua ratio nei sensi sopra indicati – secondo la quale “la notifica si perfeziona,per il soggetto notificante al momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario e, per il destinatario, dal momento in cui lo stesso ha la legale conoscenza dell’atto”.
Ritiene pertanto questo collegio che debba riaffermarsi il principio secondo il quale la distinzione dei momenti di perfezionamento delle notifiche per il notificante ed il destinatario dell’atto, con il riferimento per il notificante al momento della consegna dell’atto per la notifica, trova applicazione solo quando dal protrarsi del procedimento notificatorio possano verificarsi conseguenze negative per il notificante e non, invece, ove sia previsto che un termine a suo carico debba iniziare a decorrere dal momento dell’avvenuta notificazione, poiché il consolidamento della notifica dipende anche per il notificante dal perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti del destinatario, con la conseguenza che solo da tale momento possono decorrere i termini per la costituzione in appello o il deposito del ricorso per cassazione.
Il ricorso deve pertanto essere accolto, con la conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte di appello di Venezia in diversa composizione, la quale statuirà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte di cassazione accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di appello di Venezia in diversa composizione.





lunedì 28 novembre 2011

DONAZIONI. POSSIBILE LA REVOCA SE LA BENEFATTRICE È LASCIATA IN SOLITUDINE?

DONAZIONI. POSSIBILE LA REVOCA SE LA BENEFATTRICE È LASCIATA IN SOLITUDINE?
Cassazione, sez. II, 10 novembre 2011, n. 23545
(Pres. Triola – Rel. Mazzacane)



Svolgimento del processo
Con atto pubblico per notaio Pietro Speranza del 12-12-1991 I.E. donava a M.G..C. , nipote del coniuge della donante, la nuda proprietà di un immobile urbano sito in (OMISSIS); con lo stesso atto la donante riservava l'usufrutto per sé e, per il tempo successivo alla sua morte, per il proprio coniuge I.M..C. .
Premorto alla donante il coniuge, la I. con due missive rispettivamente del 29-1-1996 e del 4-6-1997 indirizzate alla donataria rappresentava a quest'ultima lo stato di solitudine in cui versava dopo la morte del marito, le sue infermità, l'esiguità dei propri redditi, e soprattutto manifestava l'esigenza di avere moralmente e fisicamente presso di sé la donataria per ragioni di assistenza.
La I. poi in data 3-11-1997 conveniva in giudizio dinanzi ai Tribunale di Bari la C. chiedendo revocarsi la suddetta donazione ex art. 801 c.c. ritenendo ricorrente l'ipotesi dell'ingiuria grave di cui alla norma ora citata, concretatasi nello stato di abbandono e solitudine, morale e fisica, in cui versava la donante.
Costituendosi in giudizio la convenuta eccepiva la decadenza dall'azione poiché, essendo stato il giudizio introdotto il 3-11-1997, era trascorso il termine annuale di decadenza per la proposizione dell'azione stessa decorrente dalla completa conoscenza, da parte della donante, della causa di ingratitudine, già ampiamente nota alla I. dall'epoca della prima missiva del 29-1-1996, come rivelato dal suo contenuto; chiedeva inoltre nel merito il rigetto della domanda attrice in quanto la fattispecie non integrava l'ipotesi di ingiuria grave nei confronti della donante.
Il Tribunale adito con sentenza del 1-3-2001 rigettava la domanda ritenendo essersi verificata la decadenza dall'azione, e comunque escludendo la ricorrenza dell'ingiuria grave prevista dall'art. 801 c.c..
Proposta impugnazione da parte della I. cui resisteva la C. che proponeva altresì appello incidentale la Corte di Appello di Bari con sentenza del 16-9-2005 ha rigettato entrambe le impugnazioni.
Per la cassazione di tale sentenza la I. ha proposto un ricorso articolato in tre motivi cui la C. ha resistito con controricorso; le parti hanno successivamente depositato delle memorie.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 802 primo comma c.c. anche in relazione agli artt. 1324-1362 e seguenti-2697-2727-2735 c.c. e 115-116 c.p.c. nonché insufficiente e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto l'inammissibilità dell'azione proposta sul rilievo che già all'epoca della prima missiva del 29-1-1996 la donante, nell'esternare la propria solitudine con conseguente richiesta della presenza della donataria, nonché nel riferirsi all'antica acrimonia sussistente tra la stessa donante ed i parenti del marito, era in grado di constatare se la condotta della C. integrasse gli estremi dell'ingiuria grave.
La ricorrente assume che il giudice di appello è giunto a tale conclusione sulla base di elementi neutri ai fini del decidere (quali la solitudine della donante, la richiesta della presenza della donataria, l'acrimonia con i parenti del marito), svolgendo quindi un ragionamento non corretto sul piano logico-giuridico, considerato che sul punto era stato formulato uno specifico motivo di appello con il quale era stato addebitato al giudice di primo grado di avere ingiustificatamente enfatizzato la missiva del 29-1-1996, finalizzata esclusivamente ad una richiesta di aiuto alla C. , senza alcuna specifica contestazione di comportamenti idonei ad integrare l'ingiuria grave; nello stesso senso la I. aggiunge che non è stato considerato che con la suddetta missiva l'esponente per la prima volta si era rivolta alla donataria con una richiesta di aiuto, circostanza inconciliabile con una pretesa acquisita consapevolezza di una pregressa condotta della C. integrante gli estremi dell'ingiuria grave.
Infine la ricorrente deduce l'inconsistenza logica degli ulteriori rilievi in base ai quali la Corte territoriale ha ravvisato l'intervenuta consapevolezza, sempre all'epoca della citata missiva, da parte della donante, dell'ingratitudine della donataria, per essere da un lato irrilevante l'acrimonia della I. nei confronti dei parenti del marito, e dall'altro lato illogica la presunzione dell'acrimonia nei confronti della donataria quale conseguenza di essere quest'ultima appartenente alla famiglia del defunto marito della donante.
Con il secondo motivo la I. , deducendo ulteriore violazione dell'art. 802 c.c. ed omessa e comunque insufficiente motivazione, sostiene che erroneamente la sentenza impugnata ha respinto il terzo motivo di appello, affermando che la censura in esso contenuta non segnalava in che modo ed in quale parte la lettera del 4-6-1997 e la citazione introduttiva contenessero elementi conoscitivi di "fatti ulteriori" rispetto a quelli contenuti nella missiva del 29-1-1996; in realtà con tale motivo di appello era stato evidenziato come l'ingiuria grave avrebbe dovuto essere configurata nel comportamento della donataria, rimasta assolutamente insensibile alla situazione di abbandono e di degrado morale in cui la donante era venuta a trovarsi, situazione che l'aveva spinta a formulare insistenti richieste di aiuto e soprattutto di conforto morale; pertanto solo a seguito del predetto comportamento di insensibilità la I. aveva potuto avere effettiva e definitiva contezza del comportamento ingrato della C. , così integrandosi quei "fatti ulteriori" che la Corte territoriale non ha saputo ricercare e ravvisare.
Le enunciate censure, da esaminare contestualmente per ragioni di connessione, sono fondate.
La Corte territoriale ha evidenziato che dalla lettura della missiva del 29-1-1996 inviata dalla I. alla C. emergeva con chiarezza sia la disaffezione della donataria nei confronti della donante, sia la solitudine di costei, sia la sua richiesta di presenza della donataria, ma anche nel contempo l'antica acrimonia che la I. nutriva verso i parenti del marito (tra cui anche la C. ), ai quali rimproverava condotte meschine nonostante la sua generosità e dai quali si era ritenuta insolentita; pertanto la donante già all'epoca di tale prima lettera aveva potuto rendersi conto se la condotta della C. integrasse gli estremi dell'ingiuria grave, essendo già in grado di conoscere il comportamento asseritamele ingiurioso della donataria e la difficoltà dei rapporti con la stessa.
Il giudice di appello, inoltre, nell’esaminare il terzo motivo di gravame con il quale l'appellante aveva dedotto di aver avuto contezza dell'ingiuria grave della C. nei propri confronti solo all'epoca della missiva del 4-6-1997 valutando addirittura la condotta della controparte successiva all'introduzione del presente giudizio, ha rilevato la genericità della censura nella parte in cui non segnalava in che modo ed in quale parte tale ultima lettera e la citazione introduttiva contenessero elementi conoscitivi di fatto ulteriori rispetto a quelli già ravvisabili nella missiva del 29-1-1996.
Orbene il convincimento della Corte territoriale non può essere condiviso per il decisivo rilievo che dalle argomentazioni sopra richiamate non risulta chiarito quali inequivocabili elementi contenesse la lettera del 29-1-1996 dai quali trarre la conclusione della piena consapevolezza da parte della I. di fatti ascrivibili alla C. che legittimassero la revoca della suddetta donazione per ingiuria grave.
Invero il generico riferimento all'acrimonia che la donante nutriva per i parenti del marito o la disaffezione della donataria nei confronti della I. non integrano all'evidenza gli estremi dell'ingiuria grave che ai sensi dell'art. 801 c.c. legittima la revoca della donazione, consistente in un qualsiasi atto o comportamento il quale leda in modo rilevante il patrimonio morale del donante, e palesi per ciò solo un sentimento di avversione da parte del donatario.
In proposito si osserva non solo che non sono stati indicati i presunti atti o comportamenti riconducibili alla C. che avrebbero configurato una ingiuria grave verso la donante, ma che anzi la richiesta di assistenza formulata dalla I. nei confronti della donataria nella missiva del 29-1-1996, di cui pure il giudice di appello ha dato atto, contraddice il convincimento espresso nella sentenza impugnata, in quanto evidenzia che la donante confidava ancora che le proprie sollecitazioni in tal senso avrebbero potuto essere accolte dalla C. , circostanza che smentisce l'assunto di una pretesa consapevolezza già in allora da parte dell'attuale ricorrente di un comportamento della donataria integrante gli estremi dell'ingiuria grave, consapevolezza invece raggiunta solo all'esito dell'inerzia manifestata dalla C. alla suddetta richiesta di assistenza, ciò che spiega la successiva lettera del 4-7-1997 e poi l'introduzione del presente giudizio; pertanto l’iter argomentativo seguito dalla Corte territoriale si rivela insanabilmente sia carente sia contradditorio.
Con il terzo motivo la ricorrente, deducendo violazione degli artt. 800 e 801 c.c. anche in relazione all'art. 2 della Costituzione, censura la sentenza impugnata per aver escluso la sussistenza dell'ingiuria grave nell'ipotesi del donatario che consapevolmente, pur potendo intervenire, lasci il donante in una situazione di indecoroso abbandono e di degrado morale prima ancora che materiale, e per aver omesso nella fattispecie ogni accertamento sui fatti al riguardo addebitati alla C. e da quest'ultima comunque non contestati in giudizio.
La I. sostiene che, contrariamente all'assunto del giudice di appello, l'ingiuria grave non deve ravvisarsi esclusivamente come conseguenza di una condotta commissiva, ma anche nella voluta omissione di quell'assistenza, necessaria sotto il profilo esistenziale, invocata nella specie dalla donante per ovviare ad una condizione di assoluto degrado, incompatibile con le sue primarie esigenze di vita e con la sua dignità di persona, lesa ed offesa dall'insensibilità dai soggetto a suo tempo gratificato e patrimonialmente arricchito; tale conclusione era legittimata da una interpretazione del concetto di ingiuria grave previsto dall'art. 801 c.c. in conformità dell'art. 2 della Costituzione, norma fondamentale di tutela dei diritti inviolabili della persona, e dei principi di solidarietà da cui essa trae ispirazione.
La censura è infondata.
Il giudice di appello ha ritenuto che l'indisponibilità della donataria ad assistere la donante ed a venire incontro alle sue esigenze di assistenza lasciandola così in una situazione di abbandono e di solitudine non configuravano gli estremi dell'ingiuria grave prevista dall'art. 801 c.c., non sostanziandosi in alcun atto di aggressione al patrimonio morale della I., e che d'altra parte tale comportamento della C. doveva essere inquadrato nel degrado dei rapporti personali intercorrenti tra la donante ed i familiari del marito, tra cui la donataria, contrassegnati da antica acrimonia e disaffezione.
Tale convincimento è corretto ed immune dai profili di censura sollevati dalla ricorrente, posto che il rifiuto della C. di prestare qualsiasi forma di aiuto e di assistenza alla I. , che aveva fatto reiterate richieste in tal senso, non integra gli estremi dell'ingiuria grave quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, essendo al riguardo necessario un comportamento suscettibile di ledere in modo rilevante il patrimonio morale del donante ed espressivo di un reale sentimento di avversione da parte del donatario tale da ripugnare alla coscienza comune (Cass. 5-4-2005 n. 7033; Cass. 28-5-2008 n. 14093; Cass. 31-3-2011 n. 7487); nella specie del resto la ricorrente non contesta almeno specificamente i sentimenti di ostilità e di disaffezione esistenti tra le parti ed in genere tra la I. ed i parenti del marito, cosicché correttamente la Corte territoriale ha valutato il comportamento omissivo della C. in tale più ampio contesto; al riguardo infatti questa Corte ha affermato che l'ingiuria grave di cui all'art. 801 c.c., non può essere desunta da singoli accadimenti che, pur risultando di per sé censurabili, per il contesto in cui si sono verificati e per una situazione oggettiva di aspri contrasti esistenti tra le parti, non possono essere ricondotti ad espressione di quella profonda e radicata avversione verso il donante che costituisce il fondamento della revocazione della donazione per ingratitudine (Cass. 24-6-2008 n. 17188).
Infine si osserva l'ininfluenza del richiamo comunque generico della ricorrente ai principi solidaristici sottesi all'art. 2 della Costituzione una volta che, come correttamente rilevato dalla sentenza impugnata, nella specie la domanda proposta non è basata su eventuali obblighi alimentari della donataria nei confronti della donante ai sensi dell'art. 437 c.c. (obblighi comunque irrilevanti nella fattispecie, considerato il mancato richiamo di tale norma nell'art. 801 c.c., cosicché il rifiuto degli alimenti da parte del donatario assume rilievo, ai fini della revocazione della donazione per ingratitudine, soltanto se opposto da persona che sia già obbligata a prestarli in virtù di un rapporto di parentela o di affinità con il donante), e che la donazione per cui è causa non era sottoposta ad alcun "modus".
Il ricorso deve pertanto essere rigettato; ricorrono giusti motivi, avuto riguardo alla natura della controversia, per compensare interamente tra le parti le spese di giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE
Rigetta il ricorso e compensa interamente tra le parti le spese di giudizio.





venerdì 25 novembre 2011

Come distinguersi positivamente nel mercato giuridico? di Francesc Dominguez

Come distinguersi positivamente nel mercato giuridico?

Domanda di Jennifer Losada, Presidente del Gruppo di Giovani Avvocati della Ordine degli Avvocati di Barcellona


L’esperienza
Il talento non ha età. La gioventù può essere una fonte di opportunità. Il vantaggio maggiore per i giovani avvocati è che di solito non hanno tanti pregiudizi come alcuni avvocati più anziani. Le opinioni preconcette possono essere una limitazione nel mondo degli affari.

Cosa è l’esperienza? È la capacità di imparare dalla vita, da ogni caso dei clienti. Questa capacità dipende da sé stessi più che dall’età. Pensare che un avvocato veterano sia un esperto solo per la sua età è assurdo e un handicap mentale per i giovani avvocati.

Metta da parte il suo timore, si tratta di un ostacolo facilmente sormontabile. La capacità di pensare in grande non costa niente e solo chi pensa in grande trova opportunità. Pensi in grande e calcoli bene come investire i suoi soldi e il suo tempo. Se ha dei buoni valori, che nessuno le “rubi” i suoi sogni.

I primi passi
Immagini un giovane laureato che è stato formato nella pratica legale e decide di unirsi alla professione. Di solito, la prima cosa che viene in mente è di unirsi a uno studio o associarsi con altri colleghi per aprirne un altro. Questo non è essenziale. Quello che è fondamentale è avere una strategia di mercato propria, una strategia ben definita, per iscritto, e optare per una delle due opzioni anteriori.

Aggiorni continuamente le sue conoscenze e, ciononostante, rifletta su quanto segue. La conoscenza, anche se essenziale, senza una strategia di mercato non la farà andare molto lontano. Come disse George Bernard Shaw: “Those who can, do; those who can’t, teach [“Chi può, fa; chi non può, insegna.”]

L’atteggiamento mentale
L’atteggiamento mentale è la base. Per ottenere nuovi risultati deve occuparsi di cose differenti. Se non lo fa, la causa dei suoi limiti professionali sarà lei stesso. Non dia la colpa agli altri.

Imparare ad essere più forti mentalmente ed avere autostima è essenziale per farsi un nome nella professione. Migliorare l’autostima e accettare sé stessi è la base per vendere meglio i servizi legali.

Ammirazione
Ammiri, non invidi. Per esempio, se lei aspira ad avere una grande impresa di servizi legali, la cosa migliore che può fare è ammirare i grandi studi legali. Così potrà imparare da questi. Se li invidia, perderà energie inutilmente.

I valori
Che cosa è che fa la differenza? I valori e lo stile. Lei deve conoscere esplicitamente i suoi valori, definirli e comunicarli.

La visione
Qual è la sua visione del futuro? Vuole essere un’alternativa agli studi legali che appoggiano l’internazionalizzazione delle imprese del suo paese? Un esempio: per anni ho continuato a creare un’amplia rete di contatti internazionali. Si tratta di studi disposti ad appoggiare le associazioni di imprese europee e i miei clienti nella loro espansione internazionale. Se l’ho fatto io, può farlo anche lei.

Tenere una direzione (visione) è di trascendentale importanza. I suoi sogni (visione) cominciano a diventare realtà nel momento in cui li mette per iscritto, definisce obiettivi, strategie, corsi d’azione, un calendario e si assume la responsabilità della loro attuazione.

La sua indagine del mercato
Il mondo è pieno di conquistatori che tentano di cambiare gli altri, mentre la prima cosa da fare è cambiare o migliorare uno stesso. Se lei migliora, comincerà ad ottenere nuovi risultati. Per questo, il nucleo della sua indagine di mercato deve essere lei e il suo studio legale. È fondamentale che lei conosca le sue virtù e suoi aspetti da migliorare. Chieda ai suoi collaboratori come la percepiscono. Migliori la sua marca personale in base alle sue virtù o punti forti.

Il profilo professionale
In un mondo ipercompetitivo, il profilo più apprezzato è quello dell’avvocato-consulente, vale a dire un avvocato orientato ad aiutare il cliente, in grado di identificare le sue necessità o perfino anticiparle. Un avvocato con un profilo commerciale, un professionista che apporti valore al cliente.

L’immagine
Siamo immagini. Fino a quando non ci conoscono, per le persone siamo immagini: piacevoli, fidati, capaci, intelligenti, antipatici, ecc. Per questo sono così importanti le prime impressioni quando si formano le percezioni. Faccia attenzione al suo linguaggio verbale e gestuale e ai dettagli. Il linguaggio crea la percezione, la porta degli affari.

Gli onorari
Tutti possono competere con onorari bassi. Lei deve essere capace di offrire un servizio che giustifichi onorari in consonanza con la capacità dei professionisti. Per ottenerlo, capisca bene le esigenze dei suoi clienti, si valorizzi di più, promuova la sua marca e offra ai clienti un servizio su misura.

Soci
Selezioni i suoi soci con criteri professionali, non solo in base ad amicizia o sintonia interpersonale. Si associ con professionisti che la appoggino non solo in capacità (specializzazioni) ma anche e soprattutto in atteggiamento mentale.

Consulenti e fornitori
Li selezioni secondo la loro qualità, senza prendere come criterio di base il costo. Li tratti con rispetto, come se fossero i suoi migliori clienti. Un fornitore di qualità le risparmierà tempo e problemi apporterà valore aggiunto alla sua marca.

Progetti
Dal principio della sua carriera professionale, a parte svolgere le attività relative ai casi, si concentri in progetti, vale a dire cerchi di essere un punto di riferimento in qualche mercato. Concentrarsi in progetti implica scegliere i nostri clienti e lavorare per ottenerli, lottare per vivere la vita professionale che uno vuole vivere.

Piano commerciale
Tenga bene in mente chi sono i suoi clienti potenziali e elabori un piano per attrarli (piano di marketing e commerciale).

Come facilitare l’aumento della domanda di servizi? Aumenti la sua lista di contatti. Segua la stampa economica, capisca le necessità delle imprese, personalizzi la sua offerta di servizi per loro e le visiti, senza mettere pressione. Di fronte ad un’offerta personalizzata, la decodificazione del nostro messaggio da parte del cliente è evidente: “Questo studio si è preoccupato di conoscere e capire le mie necessità”.

Partecipi attivamente alle ferie e ai congressi che le permettono di conoscere più clienti potenziali. Divida il lavoro tra i suoi soci. Partecipi attivamente anche in alcuna associazione. Questa partecipazione deve essere coerente con la sua strategia personale e con quella dello studio. Se, ad esempio, appartiene a un’associazione di giovani avvocati, ne approfitti: a parte dedicare il suo tempo al progresso della professione, si dedichi anche a creare, per esempio, una rete internazionale di contatti tra gli studi di giovani avvocati.

I contatti
I contatti sono essenziali nel modo degli affari. Attenzione, però: è necessario che le aiutino a trasmettere l’immagine che lei vuole trasmettere.

Una delle mie clienti, ad esempio, è l’avvocata di un giornale. Quando partecipava alle riunioni d’affari del giornale con imprenditori, veniva presentata come “l’avvocata del giornale”. Qual era il problema? La mia cliente stava perdendo possibili opportunità d’affari, dato che gli imprenditori potevano addirittura immaginare che lei era impiegata direttamente dal giornale e faceva parte del suo staff. Suggerì alla mie cliente di essere presentata in questo modo: “Socia di X, uno studio legale che aiuta le imprese a internazionalizzarsi. Inoltre, nostra consulente legale.”

Il messaggio è molto diverso e apre le porte a nuovi clienti.

I clienti
Si ricordi dei suoi clienti. Ci sono ditte che si ricordano dei loro clienti solo al momento di ricevere qualche pagamento. Questa è la maniera migliore per finire col perderli. Mantenga un rapporto continuo: contatti i suoi clienti almeno ogni quindici giorni. Gli invii articoli d’interesse, gli chieda se si trovano soddisfatti, gli faccia gli auguri di compleanno, li inviti ad eventi ai quali sa che sarebbero interessati, organizzi seminari esclusivamente per clienti e conoscenti, ecc. Selezioni “personale addetto ai clienti”. Il suo obiettivo non dovrebbe essere tanto la vendita di servizi legali, quanto consolidare il rapporto di fiducia con i clienti.

L’offerta deve essere differente da quella della concorrenza, però attenzione, per offerta non intendiamo solo l’offerta di servizi (può sempre essere copiata), ma il concetto e l’immagine dello studio, la qualità tecnica e relazionale degli avvocati e del servizio personalizzato offerto al cliente.

Comunichi basse aspettative al cliente: se dà al cliente più di quello che si aspetta, si guadagnerà la sua fiducia.

Gestisca bene il suo tempo
Sia intrepido: eviti di concentrarsi su questioni poco redditizi dall’inizio della sua carriera professionale. Se accetta tutti i tipi di incarichi, finirà col mettersi nei guai: lavorerà molte ore con poco profitto. Impari a dire “no”. Si concentri su clienti e casi più redditizi. Meno ore di lavoro + onorari maggiori = qualità di vita.

Gestisca bene il tempo: si concentri sul 20% dei suoi clienti, quelli che rappresentano l’80% delle sue vendite. Al resto dei clienti offra un servizio ugualmente professionale, però le dedichi meno tempo.

Consiglio finale
Spesso le opportunità stanno là dove gli altri pensano che non esistano. Alcune settimane fa un giovane avvocato europeo mi disse: “Andrò a vivere in Cina. Mi sono messo in contatto con grandi studi legali con sedi in Cina per offrirgli i miei servizi, ma senza successo. Non so che fare.”

Risposta: “Lei si è diretto a grandi studi legali senza solidi argomenti per negoziare. Se solo avesse detto che stava considerando aprire uno studio in Cina, la negoziazione sarebbe stata differente.

Cambi approccio: lei starà in una città con più di 7 milioni di abitanti, nella quale non c’è nessuno studio del suo paese. Come minimo, ha l’opportunità di mantenere il suo studio in Europa o, meglio ancora, stabilire un’alleanza con uno studio del suo paese. Investa (investimento a basso costo): apra un microstudio in Cina. Renda nota la sua disponibilità agli emigrati così come alle aziende del suo paese. Inizi, con pazienza e il massimo rispetto, relazioni di fiducia con la comunità imprenditoriale in Cina e con i residenti nel suo paese. Si posizioni come un’alternativa ad altri studi legali.

Il talento non conosce età. Solo chi pensa in grande incontra opportunità.

mercoledì 23 novembre 2011

risarcimento danni per mancato passaggio proprietà autovettura

UFFICIO DEL GIUDICE DI PACE DI PISA

REPUBBLICA ITALIANA

NEL NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice di Pace di Pisa dott. Pilade Silvestri, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. 559/98 R. G. promossa da:

C. R., rappresentato e difeso, in forza di procura a margine dell’atto di citazione, dall’avv. Silvio Scuglia ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Pisa, via Vesalio n. 8/a

= ATTORE =

CONTRO

S. P., residente in Pisa, via delle Cascine Nuove n. 122
= CONVENUTO CONTUMACE=

R. A., elettivamente domiciliato in Pisa, via Benedetto Croce n. 11, presso e nello studio del prof. Avv. Antonio Calamia, che lo rappresenta e difende giusta delega in calce all’atto di citazione
= CONVENUTO =

Avente per oggetto:

RISARCIMENTO DANNI per mancato passaggio proprietà autovettura

Passata in decisione all’udienza del 14.06.99 sulle seguenti conclusioni delle parti:

Nell’interesse della parte attrice:

"Voglia il Giudice di Pace di Pisa:

- dichiarare, sulla base delle precedenti osservazioni, la responsabilità di entrambi i convenuti per il danno di cui è causa;

- condannare i medesimi, ciascuno per il proprio titolo, al pagamento, quale risarcimento in favore dell’attore, della somma da questi pagata di £ 398.301 per le infrazioni al codice della strada e di £ 4.103.406 per la tassa di possesso, per un totale di £ 4.501.707, come risulta dalle allegate ricevute non contestate, oltre rivalutazione ed interessi dal giorno del dovuto a quello dell’effettivo soddisfo, il tutto nell’ambito della competenza per valore del Giudice adito;

- condannare infine i convenuti alla refusione delle spese, diritti ed onorari del giudizio come da nota spese che si allega."

Nell’interesse di parte convenuta:

"Piaccia all’Ill.mo sig. Giudice di Pace di Pisa, ogni contraria istanza, richiesta ed eccezione disattesa:

rigettare tutte le domande avanzate da parte attrice e, conseguentemente, dichiarare che nulla è dovuto dal A. R. ad alcun titolo al sig. R. C. a titolo di risarcimento danni ex art. 1708 c.c..
Con vittoria di spese ed onorari del giudizio."
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione, notificato in data 5 febbraio 1998 il sig. C. R., premesso di avere rilasciato a favore del dott. A. R, legale rappresentante della concessionaria A. S.r.l. con sede in Madonna dell’Acqua (PI), procura per Notaio. Landini di Pisa 08.02.1990 Rep. 343.338 per la vendita della propria autovettura tg. PI 324428, auto venduta poi in data 14.02.1990 dal suddetto mandatario al sig. P. S. per la somma di £ 1.400.000, e che per gli anni 1994-1995-1997 era stato costretto a pagare , per infrazioni stradali e per bolli auto relativi all’autovettura venduta, la complessiva somma di £ 4.501.707, in quanto né il mandatario R. né l’acquirente S. avevano provveduto ad effettuare le prescritte dichiarazioni di passaggio di proprietà dell’auto al competente PRA, somme invano richieste in restituzione al S. ed al R., chiedeva che, accertate le rispettive responsabilità dei suddetti, gli stessi venissero condannati, ciascuno per il proprio titolo, al pagamento della suddetta somma di £ 4.501.707 oltre interessi e rivalutazione monetaria.

All’udienza di prima comparizione non si costituiva il convenuto P. S, sebbene regolarmente citato, per cui ne veniva dichiarata la contumacia.

Si costituiva invece il convenuto dott. A R, il quale eccepiva preliminarmente il suo difetto di legittimazione passiva in quanto, all’epoca dei fatti, egli non era più il legale rappresentante della A S.r.l., e, nel merito, chiedeva respingersi le istanze avanzate nei suoi confronti per avere egli agito secondo le norme civilistiche che regolano il contratto di mandato senza rappresentanza.

Esperito inutilmente il tentativo di conciliazione ex art. 320 1° comma CPC, venivano ammesse ed espletate le prove per interrogatorio formale del convenuto R e per testi come formulate, dopo di che la causa, alla udienza del 14 giugno 1999, veniva ritenuta per la decisione sulle conclusioni delle parti come in epigrafe trascritte.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Ritiene innanzitutto questo Giudicante che indubitabile sia, sotto ogni profilo, la responsabilità del convenuto P S il quale, non provvedendo alle incombenze relative al passaggio di proprietà della autovettura in questione che, secondo prassi costante, sono a carico della parte acquirente e per le quali, inoltre, si era assunto ogni onere firmando la scrittura privata 21.06.1991, ha, con tale comportamento, arrecato un danno patrimoniale sia al vecchio proprietario dell’autoveicolo, che ha dovuto pagare in sua vece le contravvenzioni stradali provocate dal S, nonché la tassa di circolazione per gli anni 1991,1992,e 1993 che lo stesso non si era curato di pagare, sia al convenuto R A, chiamato dall’attore C a rispondere solidalmente con lo stesso S per il risarcimento dei danni di cui sopra.

Tale comportamento di completo disinteresse di ogni obbligo derivatogli dall’acquisto dell’autovettura, già dimostrato con la sprezzante risposta scritta alla richiesta del prof. C effettuata il 18.10.1994, ha avuto seguito nel seguente processo, nel quale, rimanendo contumace, il S ha ulteriormente dimostrato di non poter minimamente contrastare sotto alcun profilo la pretesa attrice.

Per quanto concerne la richiesta attorea di accertamento di responsabilità per inadempimento contrattuale ex art. 1708 c.c. nei confronti del convenuto R A, devesi innanzi tutto respingersi l’eccezione del medesimo preliminarmente proposta (per quanto di fatto non coltivata in prosieguo di giudizio) di carenza di legittimazione passiva, per non essere più, lo stesso, all’epoca dei fatti, il legale rappresentante della Concessionaria A S.r.l.; e ciò essendo risultato chiaramente in atto che il R era stato citato personalmente, e non quale rappresentante legale della concessionaria, carica che non rivestiva più da vari anni.

Ritiene infatti questo giudicante che se il R avesse esercitato il mandato di vendita conferitogli in tale veste, chiaramente la consegna alla A S.r.l. della vecchia autovettura avrebbe configurato solo un conguaglio del prezzo di acquisto della nuova, e quindi, come più volte deciso anche da questo Giudice di Pace, il mandato in questione rilasciato a soggetto che fa abitualmente commercio di autoveicoli, avrebbe dovuto comprendere implicitamente l’obbligo del mandatario di provvedere anche alla trascrizione delle vendite presso il PRA trattandosi di fatto di un trasferimento di proprietà al concessionario, e se non altro, per l’impossibilità da parte del "mandante" di venire a conoscenza del nominativo dell’eventuale acquirente dell’autovettura cedute a conguaglio.

Nel caso di specie ci troviamo invece nell’impossibilità da parte dell’A, per le ragioni che sappiamo, di ritirare la vecchia auto del Prof. C a conguaglio del prezzo della nuova, e della conseguente necessità di trovare, per altro tramite, un compratore della stessa, culminata con il rilascio del mandato ad hoc al dott. R. contattato ed incaricato preliminarmente dal G C, dipendente dell’A S.r.l.

Si tratta quindi di accertare, in questa sede, se il R, mandatario senza rappresentanza, avesse o meno anche l’obbligo di curare la trascrizione della vendita dell’auto al PRA e se tale adempimento rientri o meno tra gli atti necessari al compimento del mandato previsto dal 1° comma dell’art. 1708 c.c., o, per meglio dire, sia compreso tra quelle attività complementari, strumentali all’esercizio del mandato e necessarie al conseguimento del risultato previsto dal mandato stesso sulle quali vi è concorde giurisprudenza.

Un esame della giurisprudenza in materia fa propendere per la soluzione negativa.

Vi infatti concordanza nel ritenere che la trascrizione al PRA non sia un requisito di validità o efficacia dell’alienazione (oggetto del mandato) ma solo uno strumento di tutela per il caso di conflitto tra più soggetti che vantino diritti sulla cosa (Cass. 5954 s. II 1996; 5270 s. IV 1997; app Milano 29.10.1991)

Non solo: ma le uniche due sentenze che prevedono tale obbligo per il mandatario, lo prevedono come obbligo contrattuale espressamente previsto dalle parti nel contratto (Cass. Sez. II n. 3853 del 5.9.89 e Sez. III n. 2444 del 2.3.95): il che, nel caso in specie, non é previsto, in quanto il mandato é puramente generico e finalizzato sic et simpliciter alla vendita dell’autoveicolo.

Se si considera infine che il mandatario R, nel periodo in cui l’auto in questione era rimasta nella sua disponibilità, aveva sempre provveduto al pagamento delle relative tasse automobilistiche, e che, trovato il compratore nella persona del S, gli aveva fatto sottoscrivere un preciso atto di assunzione di responsabilità derivanti dal trasferimento, nonché l’impegno a trascrivere il trasferimento stesso al PRA nel termine di legge (adempimento, del resto, per prassi costante, a carico dell’acquirente), appare evidente che nessun appunto possa essergli mosso avendo egli eseguito il mandato ex art. 1710 c.c..

Non può infine non essere sottolineato, sotto il profilo dell’obbligo tributario, il fatto che sfortunatamente l’attore C ha provveduto al pagamento della tassa di circolazione dell’autoveicolo per gli anni a riferimento solo pochi giorni prima dell’entrata in vigore della legge 27.12.1997 n. 449, che, all’art. 17 comma 18 ha modificato l’art. 94 Codice della Strada, disponendo che nei casi in cui si dimostri che il bene non é più nelle disponibilità del ‘titolare" viene messo l’obbligo fiscale dello stesso, e gli uffici competenti (leggi Ufficio del Registro) provvedono allo annullamento delle procedure di riscossione coattiva.

In conclusione ritiene questo Giudice che il convenuto S P debba, in conseguenza di quanto sopra detto, essere condannato a pagare all’attore C R, la complessiva somma di £ 4.501.707 come in atti dettagliata, somma sulla quale andranno conteggiati gli interessi legali dal giorno del dovuto al saldo e la rivalutazione monetaria, e le spese di causa liquidate come in dispositivo.

Il convenuto S deve altresì essere condannato a rifondere al convenuto R A le spese di causa, spese che vengano pure liquidate in dispositivo.

Ritiene infine questo giudicante che sussistano giusti motivi per un equa compensazione delle spese tra l’attore C ed il convenuto R.

P. Q. M.

Il Giudice di Pace, definitivamente pronunciando, condanna il convenuto P S a pagare all’attore R C, per le causali di cui in motivazione, la complessiva somma di £ 4.501.707 con gli interessi legali e la rivalutazione monetaria dal giorno del dovuto al saldo effettivo.

Lo condanna altresì a pagare all’attore le spese del presente giudizio, che liquida in complessive £ 4.229.000, delle quali £ 557.000 per spese, £ 1.552.000 per diritti e £ 2.120.000 per onorari, oltre al 10% su diritti ed onorari per spese generali e IVA e CAP come per legge, ed al convenuto A R quelle relative alla sua costituzione in causa, che liquida in complessive £ 2.479.800 delle quali £ 256.800 per spese, £ 1.333.000 per diritti e £ 890.000 per onorari, oltre IVA e CAP come per legge.

Rigetta la domanda dell’attore C nei confronti del convenuto R e dichiara interamente compensate tra gli stessi, sussistendo giusti motivi, le spese di causa.

Così deciso in Pisa il 25 giugno 1999

lunedì 21 novembre 2011

Sentenza 7 giugno – 13 luglio 2011, n. 15392. Circolazione stradale

La sosta di un veicolo a motore su un'area pubblica o ad essa equiparata integra gli estremi della fattispecie "circolazione", con la conseguenza che dei danni derivati a terzi dall'incendio del veicolo in sosta sulle pubbliche vie o sulle aree equiparate risponde anche l'assicuratore, salvo che sia intervenuta una causa autonoma, ivi compreso il caso fortuito, che abbia determinato l'evento dannoso.


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 7 giugno – 13 luglio 2011, n. 15392


(Presidente Morelli – Relatore Carluccio)

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Lecce, in persona del GOT, riformava la sentenza del Giudice di Pace di Lecce, che aveva condannato, in favore di P. R., la Nuova Tirrena spa, quale società assicuratrice di M. R. R. per la responsabilità da circolazione stradale, al risarcimento del danno conseguente ad un incendio di autoveicoli parcheggiati.

In particolare il giudice di secondo grado, in accoglimento dell'appello proposto dalla Assicurazione, riteneva non applicabile la disciplina della legge 24 dicembre 1969, n. 990 relativa alla circolazione stradale, stante la situazione di quiete delle autovetture, ed essendo stati coinvolti i mezzi solo accidentalmente, ed inoltre, riteneva totalmente estranea all'evento la R. Ordinava la restituzione degli importi liquidati dal primo giudice.

2. Avverso la suddetta sentenza propone ricorso per cassazione Pasquale Ruggiero, con un unico motivo.

La Nuova Tirrena spa e M. R. R., ritualmente intimati, non hanno svolto difese.

Motivi della decisione

1. Il collegio ha disposto l'adozione di una motivazione semplificata.

2. Con l'unico motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione della legge n. 990 del 1969 e insufficiente motivazione, censurando la decisione impugnata nella parte in cui esclude l'incendio di un veicolo, in situazione di arresto e di sosta, dal concetto di circolazione stradale ai fini della assicurazione obbligatoria, contrariamente alla giurisprudenza di legittimità.

3, Il ricorso è manifestamente fondato.

La Corte ha costantemente affermato il principio secondo cui <> (da ultimo Cass. 11 febbraio 2010, n. 3108 ).

La sentenza impugnata ha risolto la questione di diritto In modo totalmente difforme dalla giurisprudenza consolidata di legittimità.

Deve, pertanto, essere cassata, con rinvio a Tribunale di Lecce, in persona di diverso giudice, che deciderà la controversia applicando il suddetto principio di diritto e liquiderà le spese anche del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Lecce, in persona di diverso giudice, anche per le spese processuali del giudizio di cassazione.

Di seguito la sentenza del 10 febbraio 2010

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 11 febbraio 2010, n. 3108


Svolgimento del processo

G.L. conveniva davanti al giudice di pace di Mezzojuso B.S. e la Nuova Tirrena assicurazioni s.p.a. per sentirli condannare in solido al risarcimento del danno subito dalla sua auto a seguito di incendio dell'autocarro in sosta del B., avvenuto il **** nell'abitato del Comune di B.M..

Si costituiva l'assicuratrice che assumeva non versarsi in ipotesi contemplata dalla normativa della L. n. 990 del 1969.

Interveniva in giudizio B.L., che assumeva che la sua abitazione aveva avuto danni dall'incendio dell'autocarro, per cui chiedeva che i convenuti fossero condannati al risarcimento di tali danni al suo immobile.

Il giudice di pace, con sentenza n. 17/02, accoglieva la domanda dell'attore e dell'interventore, condannando i convenuti al risarcimento dei rispettivi danni.

Proponeva appello la sola Nuova Tirrena.

B.S. restava contumace.

Il Tribunale di Termini Imerese, con sentenza depositata il 20.12.2004, in parziale riforma della sentenza appellata, rigettava le domande dell'attrice e di B.L., nei confronti dell'assicuratrice Nuova Tirrena.

Riteneva il tribunale che esisteva un contrasto giurisprudenziale in merito al punto se costituisse danno da circolazione stradale, rientrante nella fattispecie di cui all'art. 2054 c.c., quello causato da incendio di autoveicolo in sosta; che l'incendio di autovettura parcheggiata ed il danno conseguente non è evento prodotto dalla circolazione stradale, fatta eccezione l'ipotesi in cui venga individuato uno specifico nesso eziologico tra un avvenimento della circolazione e l'incendio; che nella fattispecie tale collegamento tra circolazione ed incendio non era stato provato;

che conseguentemente non sussisteva un'ipotesi di copertura assicurativa obbligatoria di cui alla L. n. 990 del 1969 e che, pertanto, non poteva essere proposta l'azione diretta nei confronti dell'assicuratrice.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione G. L..

Resiste con controricorso la Nuova Tirrena Assicurazioni.

Motivi della decisione

1. Preliminarmente va osservato che l'eccezione della Nuova Tirrena, secondo cui nella fattispecie non sarebbe stato integrato il contraddittorio nel confronti dell'interventore B.L., in favore anche del quale era stata disposta la condanna al risarcimento del danno in primo grado, risulta superata dalla disposta integrazione nei confronti del B..

2. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 990 del 1969, artt. 1 e 18 e dell'art. 2054 c.c. nonchè l'erronea ed insufficiente motivazione della sentenza.

Lamenta la ricorrente che erratamente il tribunale abbia escluso che l'incendio di autovettura parcheggiata sulla pubblica via non costituisca danno da circolazione stradale, coperto dall'assicurazione obbligatoria dei veicoli a norma della L. n. 990 del 1969. 3. Il motivo è fondato.

La sentenza impugnata (aderendo alla tesi dell'assicuratrice) ritiene che la sosta costituisce una forma di circolazione e che i danni prodotti da un veicolo in sosta pure possono essere ricompresi fra quelli di cui l'assicuratore deve direttamente rispondere ai sensi della L. n. 990 del 1969; ma ciò a condizione che determinate modalità di sosta, in ipotesi contrastanti col disposto dell'art. 157 C.d.S. ovvero con le regole di ordinaria prudenza e diligenza, interferiscano con la circolazione. La sentenza impugnata ritiene necessario, ai fini dell'applicabilità della L. n. 990 del 1969, che le conseguenze dannose siano effetto di una condotta di cui debba rispondere il conducente ex art. 2054 c.c. poichè la L. n. 990 del 1969, art. 1 a quel tipo di responsabilità fa espresso riferimento.

Se, invece, la responsabilità del conducente non sia prospettabile, deve escludersi la riconducubilità dell'evento alla circolazione per gli effetti della responsabilità dell'assicuratore ai sensi della legge sull'assicurazione obbligatoria e concludersi che la norma applicabile è quella di cui all'art. 2051 c.c.. A sostegno dei propri assunti richiama il principio enunciato da Cass. n. 5032 del 2000 la quale ha affermato che "il danneggiamento di un immobile a causa dell'incendio di un'auto parcheggiata in prossimità, fatta eccezione per l'ipotesi che venga individuato un particolare e specifico nesso eziologico tra un determinato avvenimento della circolazione stradale ed incendio, non può considerarsi un evento prodotto da detta circolazione stradale" nonchè da Cass. n. 5146 del 1997. 4.1. L'indirizzo di questa Corte è costante nel senso che, se l'incendio che si propaga da un veicolo in sosta su area pubblica sia stato appiccato dolosamente, le conseguenze dannose che ne siano derivate ai terzi non possono essere eziologicamente ricollegate alla circolazione stradale, con la conseguenza che in tal caso l'assicuratore per la responsabilità civile del veicolo, dal quale si è propagato l'incendio, non risponde del azione diretta nei confronti dei terzi danneggiati, privi dell'azione diretta nei confronti dell'assicuratore ai sensi della L. 24 dicembre 1969, n. 990, art. 18, comma 1, (così, oltre alla citata sentenza n. 5032 del 2000, la coeva Cass., 18 aprile 2000, n. 5033, nonchè Cass., 6 maggio 1998 n. 4575 e 9 giugno 1997, n. 5146).

4.2. Non altrettanto univoco è l'orientamento nei casi in cui l'incendio sia insorto indipendentemente dall'intervento doloso di terzi.

Benchè, infatti, si sia affermato che anche l'autoveicolo in sosta deve considerarsi in circolazione per gli effetti di cui 2054 c.c. (cfr., ex plurimis, Cass. 16/02/2006, n. 3437; Cass. Sez. Unite, 23/12/2005, n. 28507) e, correlativamente, della legge sull'assicurazione obbligatoria dei veicoli a motore e dei natanti, s'è tuttavia talora ritenuto che in tanto l'incendio propagatosi da un veicolo è ricollegabile alla circolazione in quanto sia dipeso da una collisione (così Cass., n. 4575/98) o comunque dal "normale utilizzo funzionale del veicolo assicurato" (così Cass., n. 5146/97), essendo necessario che si evidenzi "un particolare e specifico nesso eziologico con un determinato avvenimento attinente alla circolazione" (Cass., 20 novembre 2003, n. 17626). Si è in particolare affermato che "una situazione dannosa proveniente da un veicolo fermo va attribuita alla sua circolazione (ai sensi e per gli effetti dell'art. 2054 c.c.) solo quando provenga da causa comunque attinente (e non estranea) alla sua utilizzazione appunto come veicolo, senza l'interferenza di fattori esterni", sicchè, a fronte di una domanda proposta ai sensi dell'art. 2051 c.c. (nel quale non è evidentemente configurabile la responsabilità diretta dell'assicuratore nei confronti del danneggiato), per inquadrare la fattispecie nel diverso schema di cui all'art. 2054 c.c. occorre considerare se l'incendio possa considerarsi evento relativo alla circolazione stradale (nella specie, il giudice di secondo grado aveva ritenuto la domanda improcedibile nei confronti del responsabile civile in quanto non era stata soddisfatta la condizione della preventiva richiesta di risarcimento all'assicuratore della L. n. 990 del 1969, ex art. 22).

5.1. Per converso, la più recente giurisprudenza (Cass. 05/08/2004, n. 14998; Cass., 6 febbraio 2004, n. 2302) ha affermato che, poichè anche in occasione di fermate o soste sussiste la possibilità di incontro o comunque di interferenza con la circolazione di altri veicoli o di persone, anche in tali contingenze il conducente non può ritenersi esonerato dall'obbligo di assicurare l'incolumità dei terzi (cfr. Cass. 28 novembre 1990, n. 11467), sicchè deve considerarsi relativo alla circolazione l'incendio propagatosi dal veicolo in sosta (con conseguente azione diretta danneggiato nei confronti dell'assicuratore del veicolo), a meno che esso non sia stato appiccato dall'azione dolosa di terzi, la quale è da sola sufficiente ad escludere il nesso di causalità tra la circolazione e l'incendio stesso. Si è dunque concluso (in fattispecie nella quale l'incendio si era propagato da un veicolo ad un altro) che la sosta è essa stessa circolazione e che "comprende in sè il complesso delle situazioni dinamiche e statiche in cui è posto il veicolo sulla pubblica via". 5.2. Tale impostazione va anche in questa occasione confermata.

Costituisce, invero, un dato ormai acquisito (oltre alla giurisprudenza sopra citata, si veda anche Corte cost. 14 aprile 1969, n. 82) che la sosta su area pubblica o ad essa equiparata "è" essa stessa circolazione, non potendo questa restrittivamente intendersi di veicolo in movimento. Se ne trova ulteriore conferma nell'art. 3 C.d.S., n. 9 approvato con D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, che appunto definisce la circolazione come "il movimento, la fermata e la sosta dei pedoni, dei veicoli e degli animali sulla strada".

Ravvisare allora nesso eziologico tra circolazione ed incendio della vettura in sosta solo allorchè l'incendio si sia "sviluppato poco dopo l'utilizzo del veicolo, e quindi per avarie insorte verosimilmente mentre era in movimento", giacche diversamente, nel caso di incendio di veicolo fermo già da tempo, ogni possibile nesso con la circolazione deve essere escluso, equivale ad accedere ad un'erronea concezione di "circolazione" nonchè della responsabilità di cui all'art. 2054 c.c., u.c..

Concezione tra l'altro contrastante col rilievo che l'avaria ben può essere insorta per cause diverse dal movimento appena cessato con la sosta, quali ad esempio l'usura complessiva del mezzo e delle sue componenti elettriche e meccaniche, a determinare le quali concorre lo stesso decorso del tempo, di movimenti e di soste (e di tipi di movimento e di tipi di soste) sin dall'epoca della costruzione del veicolo, in relazione anche alla qualità della stessa, nonchè alla frequenza ed al genere di manutenzione cui sia stato sottoposto.

5.3. A tal fine va osservato che l'art. 2054 c.c., u.c. non consente al proprietario (ed agli altri soggetti indicati nei commi precedenti, tra cui il conducente) di sottrarsi alla responsabilità per i danni derivati dalla circolazione (fatta come s'è detto, di movimento e di sosta) per vizi di costruzione o per difetto di manutenzione, in assenza dei quali, ove difetti un apporto causale esterno, a ben vedere non è dato ipotizzare che un veicolo a motore prenda spontaneamente fuoco dopo essere stato arrestato.

Anche la responsabilità per danni da vizio di costruzione o difetto di manutenzione del veicolo è prevista dall'art. 2054 c.c., u.c., allorchè essa attiene ad eventi dannosi verificatisi durante la circolazione (ivi compresa la sosta, per le ragioni suddette) sulle pubbliche vie o aree equiparate, ed essa costituisce oggetto dell'assicurazione obbligatoria ai sensi della L. n. 990 del 1969, art. 1 (attualmente D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 122) che si riporta a tutte le fattispecie di responsabilità di cui all'art. 2054 c.c..

6. Il primo motivo va dunque accolto e la sentenza va cassata con rinvio al tribunale di Termini Imprese, in persona di altro magistrato, per la decisione della causa nel rispetto del seguente principio di diritto: "Agli effetti dell'art. 2054 c.c. e della Legge Assicurazione Obbligatoria n. 990 del 1969, art. 1 (ed ora D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 122) anche la sosta di un veicolo a motore su area pubblica o ad essa equiparata costituisce circolazione, con la conseguenza che dei danni derivati a terzi dall'incendio del veicolo in sosta, sulle pubbliche vie o aree equiparate, anche se determinato da vizio di costruzione o difetto di manutenzione, risponde: anche l'assicuratore, salvo che sia sopravvenuta una causa autonoma (ivi compreso il caso fortuito) che abbia determinato l'evento dannoso".

Il giudice del rinvio provvederà anche a regolare le spese del giudizio di legittimità. 7. I restanti motivi di ricorso rimangono assorbiti.

P.Q.M.


Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti i restanti. Cassa l'impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, al tribunale di Termini Imerese, in persona di diverso magistrato.

Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2010.








lunedì 7 novembre 2011

L'ESECUZIONE SUI BENI INDIVISI

ESECUZIONE SU BENI INDIVISI

Può accadere che la esecuzione abbia ad oggetto, tra gli altri o in via esclusiva, beni indivisi: ovvero beni in comproprietà con soggetti non esecutati.
Nella esecuzione in commento si trova coinvolto un soggetto estraneo alla posizione debitoria.
A questi va prima di tutto notificato l’avvisto ex art. 599, tendenzialmente unitamente all’avviso ex art. 498 c.pc: tale avviso ha l’effetto di impedire che i comproprietari procedano, in maniera opponibile al creditore procedente, alla divisione volontaria.
DA tenere distinta dalla ipotesi de quo, ovvero della cd. Comunione ordinaria, la fattispecie della comunione legale fra i coniugi, vero e proprio regime patrimoniale avente ad oggetto la regolamentazione dei rapporti giuridici futuri. In tale ipotesi l’avviso al coniuge non esecutato va inderogabilmente notificato, pena la improcedibilità della esecuzione ( C. n 718 del 1999).
Nella ipotesi di pignoramento di quota indivisa il creditore dovrebbe, unitamente alla istanza di vendita, chiedere al giudice la fissazione della udienza ex art. 600 c.p.c. in cui decidere con quali modalità procedere alla liquidazione della quota.
Nella realtà dei fatti quasi mai il creditore avanza istanza apposita; si perviene alla udienza ex art. 569 c.p.c. in cui decidere sulle modalità della vendita con il mero avviso ex art. 599 c.p.c. –che non corrisponde affatto alla convocazione delle parti ex art. 600 c.p.c.-; fino ad ora poi si era sempre proceduto con la vendita della quota indivisa.
In realtà i modi in cui può avvenire la espropriazione della quota indivisa sono TRE:
1) Vendita della quota indivisa –unico vero modo di liquidazione del bene espropriato-e metodo tendenzialmente seguito nella stragrande maggioranza dei casi. E’ pero’ sotto gli occhi di tutti gli operatori che tale metodo ha sortito pessimi risultati: la quota ha pochissimi acquirenti potenziali (i comproprietari o agenti immobiliari che poi effettuano richiesta estorsiva all’esecutato minacciandolo di divisione), e la vendita spesso ha effetto positivo solo dopo varie vendite ed a prezzo vile, o addirittura deve essere abbandonata.
A tale proposito si rammenta la decisione di questo ufficio di non procedere più alla vendita qualora il bene staggito abbia un valore inferiore ai 5.000 euro.
2) separazione della quota: metodo preferito dal legislatore e che può essere adottato dallo stesso GE e consiste nella individuazione, anche a mezzo di ausiliario tecnico che ne individui i dati catastali o effettui un frazionamento, di una porzione del bene che abbia individualità giuridica ed economica e giuridica autonoma e su cui si concentri la quota. Il diritto su una quota di 1/3 di un bene 100, diviene diritto di piena proprietà per l’intero su un bene che vale 33. La separazione è una sorta di divisione parziale.
Il GE, ritenuti i presupposti per la separazione, emette ordinanza relativa (disponendone la trascrizione una volta divenuta definiva ovvero trascorsi cinque giorni), e dispone poi la vendita del bene intero “ricavato”. La esecuzione si concentra quindi sul bene assegnato dal debitore.
E’ opportuno rammentare che tale ipotesi ricorre poco di frequente; secondo la dottrina la separazione presuppone l’accordo fra tutti i contitolari ( salvo poi verificare se occorra l’accordo espresso o se sia sufficiente la convocazione alla udienza ex art. 600 c.p.c. ritualmente ricevuta e la mancata espressa opposizione)
3) divisione del bene intero. La divisione di un immobile, ai sensi delle norme generali sulla divisione, può avvenire in natura –ove il bene sia divisibile in natura -, mediante assegnazione dell’intero ad uno dei comproprietari che ne faccia richiesta e versi il prezzo in denaro, o tramite vendita dell’intero –ove il bene sia indivisibile e nessuno dei condividenti avanzi istanza di assegnazione.
A seguito di istanza del creditore procedente il GE convoca le parti ivi compresi i comproprietari ad una udienza fissata allo scopo di decidere sulle modalità della esecuzione sulla quota: a quella udienza il GE
a) può separare la quota –se ne sussistano i presupposti- e fissare la vendita del bene separato.
b) Può fissare la vendita della quota indivisa
c) Può, SU ISTANZA DEL CREDITORE, disporre la divisione dell’intero; in tale ipotesi occorre che venga instaurata causa ordinaria di divisione; atteso l’art. 181 disp att cpc e parificata la presenza di tutti alla loro rituale convocazione, il GE è competente per territorio anche per la divisione; fissa la udienza ex art. 180 cpc della causa di divisione; la causa di divisione, benché pendente innanzi al medesimo giudice-persona fisica, è causa autonoma che deve essere iscritta a ruolo e deve essere contenuta in un fascicolo separato ( un po’ come accade per le cause di opposizione alla esecuzione o agli atti esecutivi); durante la pendenza della causa di divisione (art. 601 cpc) la esecuzione rimane per legge sospesa.
Nella causa di divisione si accerterà:
I. se il bene è o meno divisibile in natura (ovvero se dallo stesso possano ricavarsi tante porzioni pari al numero ed alla quota dei comproprietari che abbiano una funzionalità giuridica e economica autonoma); se il bene è divisibile il giudice predispone, mediante l’ausilio di un consulente tecnico, un progetto di divisione in natura che sottopone ai comproprietari; se essi lo approvano con ordinanza il GI lo dichiara esecutivo e la ordinanza viene trascritta, la causa di divisione termina e la esecuzione riprende mediante vendita della porzione assegnata dal progetto al debitore. Se il progetto non viene approvato il giudice decide con sentenza. Nel caso in cui le quote siano di pari valore e i comproprietari non si accordino il giudice, decisa con sentenza la approvazione del progetto rimetterà la causa in istruttoria per la estrazione a sorte di lotti (trattandosi di lotti uguali non è possibile individuare un assegnatario per ogni lotto se non tramite accordo o tramite estrazione a sorte; anche se è previsto un conguaglio).
II. se il bene è indivisibile in natura, ipotesi nella prassi più frequente specie in caso di fabbricati, il giudice della divisione, se nessuno dei comproprietari chiede l’assegnazione dell’intero previa corresponsione del valore di stima residuo (totale – valore della sua quota; in questo caso il valore della quota non patisce abbattimento), dispone la vendita dell’intero.
La vendita avverrà nelle modalità del giudizio esecutivo (con o senza incanto) e potrà essere nominato un custode giudiziario del bene. Avvenuta la vendita lo stesso giudice della divisione ripartirà il ricavato, dedotte le spese di divisione, fra i vari comproprietari: la quota spettante al debitore esecutato transiterà immediatamente nel processo esecutivo, che riprenderà, e sarà poi oggetto dell’usuale riparto.
La istanza di fissazione di udienza da parte del creditore procedente può essere avanzata contestualmente alla istanza di vendita, o comunque alla udienza di conferimento dell’incarico al CTU.
In tal modo il GE potrà fissare la stessa udienza sia per decidere sulle modalità della vendita che per convocare i comproprietari. Alla udienza ex art. 569 cpc il GE disporrà sia della perizia che della convocazione dei comproprietari: potrà quindi decidere sulla separazione, o disporre la instaurazione della causa di divisione innanzi a se’ quale GI, fissare la udienza, acquisire al fascicolo della divisione la perizia espletata dal CTU ( a cui viene sempre dato l’incarico di verificare se il bene sia o meno divisibile e se sia fattibile un progetto di divisione in natura).
Nell’ambito del giudizio di divisione in cui poi venga disposta la vendita del bene intero sarà nominato custode giudiziario, che dovrà provvedere ai medesimi adempimenti cui solitamente provvede in sede di vendita esecutiva, ivi compresa la liberazione del bene prima della udienza di vendita ( anche ove occupato da uno solo dei comproprietari, che è senza titolo rispetto al resto del bene) come da modulo già diffuso sul sito.
QUOTA INDIVISA FACENTE PARTE DELL’ATTIVO FALLIMENTARE
Siamo di fronte alla diversa, anche se similare, ipotesi in cui dell’attivo di un fallimento faccia parte una quota di diritto reale su di un bene immobile. Occorre distinguere varie ipotesi a seconda dello stato in cui si trovino le altre quote non facenti parte dell’attivo, sempre nell’ottica della decisa preferenza per la vendita dell’intero piuttosto che della quota. Lo scopo e’ vendere l’intero.
1) quota acquisita al fallimento e altre quote libere. In forza del generale richiamo delle norme sul processo esecutivo operato dall’art. 105 l.f., si ritiene che il GD possa direttamente applicare gli artt. 599 cpc e ss: egli, su istanza del curatore ( che in questo caso ha i poteri del creditore procedente), dispone la convocazione dei comproprietari.
In questa sede il GD, ove non possa separare la quota e non ritenga conveniente vendere la quota indivisa, dispone la instaurazione del giudizio di divisione, durante il quale la liquidazione della quota deve essere sospesa. Il giudizio di divisione, se il bene si trova nel territorio coperto da competenza del GD, può essere instaurato direttamente davanti al GD che svolgerà funzioni di GI.
In esso se il bene è divisibile in natura verrà approvato, con ordinanza o con sentenza se vi sono contestazioni, il progetto di divisione ed al fallimento verrà attribuito un lotto in piena proprietà che verrà liquidato in sede fallimentare.
Se il bene non è divisibile, o uno dei comproprietari in bonis chiede l’assegnazione dell’intero e quindi al fallimento spetterà la somma versata corrispondente alla quota del fallito, o si dispone la vendita dell’intero, in esito alla quale sempre spetterà al fallimento una somma di denaro. IN verità anche il fallimento, se dispone delle risorse finanziarie e se lo valuta conveniente può chiedere l’assegnazione dell’intero e in questo caso si ritroverà proprietario di un bene intero che provvederà a vendere trattenendo l’intero ricavato.
2) le quote degli altri comproprietari sono oggetto di esecuzione individuale o di altra procedura fallimentare (ovvero gli altri comproprietari sono falliti o esecutati)
Come fare a coordinare le due procedure? Nella prassi del tribunale di Ro si procede alle volte a delegare la vendita dell’intero al GD. Invero tale prassi deve subire un qualche ripensamento, atteso che mentre il GE ha un potere generale di vendere beni pignorati ( e tali essendo i beni fallimentari atteso il senso di pignoramento generale del fallimento), il GD certamente ha un potere liquidatorio limitato ai beni della procedura: in buona sostanza tra i poteri liquidatori del GD e del GE vi è un rapporto di species a genus.
Quindi appare auspicabile che la procedura liquidatoria fallimentare venga riunita a quella esecutiva individuale, trasformando la procedura esecutiva fallimentare in una procedura esecutiva ordinaria.
A) Se la esecuzione pende innanzi al medesimo tribunale innanzi cui pende il fallimento: il GD incarica il curatore, dietro istanza, di promuovere azione esecutiva ordinaria sulla quota spettante al fallito; verrà nominato un legale che depositerà in cancelleria esecuzioni la sentenza di fallimento e la sua trascrizione ( che sostituiscono precetto e pignoramento), la perizia espletata in sede fallimentare; si instaurerà un giudizio di esecuzione che verrà riunito, su istanza del curatore, a quello già pendente nei confronti delle altre quote;
B) Lo stesso può esser fatto ovviamente se la esecuzione individuale pende innanzi a Tribunale diverso ( il bene è dislocato in altro territorio).