lunedì 31 ottobre 2011

CONDOMINIO MINIMO: POSSIBILE IL RIMBORSO DELLE SPESE SOLO SE LE OPERE SONO URGENTI

CONDOMINIO MINIMO: POSSIBILE IL RIMBORSO DELLE SPESE SOLO SE LE OPERE SONO URGENTI
Cassazione, sez. II, 12 ottobre 2011, n. 21015

La diversa disciplina dettata dagli artt. 1110 e 1134 cod. civ. in materia di rimborso delle spese sostenute dal partecipante per la conservazione della cosa comune, rispettivamente, nella comunione e nel condominio di edifici, che condiziona il relativo diritto, in un caso, a mera trascuranza degli altri partecipanti e, nell'altro caso, al diverso e più stringente presupposto dell'urgenza, trova fondamento nella considerazione” che, nella comunione, i beni comuni costituiscono l'utilità finale del diritto dei partecipanti, i quali, se non vogliono chiedere lo scioglimento, possono decidere di provvedere personalmente alla loro conservazione, mentre nel condominio i beni predetti rappresentano utilità strumentali al godimento dei beni individuali, sicché la legge regolamenta con maggior rigore la possibilità che il singolo possa interferire nella loro amministrazione. Ne discende che, istaurandosi il condominio sul fondamento della relazione di accessorietà tra i beni comuni e le proprietà individuali, poiché tale situazione si riscontra anche nel caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, la spesa autonomamente sostenuta da uno di essi è rimborsabile solo nel caso in cui abbia i requisiti dell'urgenza, ai sensi dell'art.1134 cod. civ


Cassazione, sez. II, 12 ottobre 2011, n. 21015
(Pres. Triola – Rel. Petitti)


Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato, G.M.F. conveniva in giudizio, dinnanzi al Giudice di pace di Sant'Arcangelo, G.V. , L.R. , G.A. , G.F. , Gu.Fr. e C.G. e, assumendo di essere comproprietaria e condomina di un immobile sito in (omissis) , unitamente ai convenuti, chiedeva la condanna di questi ultimi al pagamento, con vincolo solidale o separatamente, della somma di lire 2.789,250, oltre interessi, assumendo di avere fatto eseguire, previo consenso dei convenuti, lavori di riparazione dell'immobile comune e di avere anticipato la somma relativa ai canoni dell'acqua per il periodo luglio-settembre 2000.
Instauratosi il contraddittorio, i convenuti, ad eccezione di G.V. , si costituivano e contestavano la domanda, in quanto i lavori erano stati eseguiti senza il loro consenso e comunque perché si trattava di spese non urgenti.
L'adito Giudice di pace, con sentenza depositata il 4 maggio 2002, rigettava la domanda.
G.M.F. proponeva appello, sostenendo che il Giudice di pace aveva errato nell'applicare l'art. 1134 cod. civ. e dolendosi della mancata decisione in ordine alle spese relative ai canoni dell'acqua.
Si costituivano gli appellati, ad eccezione di G.V. , chiedendo il rigetto del gravame. C.G. reiterava l'eccezione di difetto di legittimazione passiva.
Con sentenza depositata il 9 agosto 2004, il Tribunale di Lagonegro, in parziale accoglimento del gravame, condannava i convenuti al pagamento della somma di Euro 19,92 ciascuno, compensando integralmente le spese del doppio grado di giudizio.
Il Tribunale, rilevato che correttamente il Giudice di pace aveva fatto applicazione dell'art. 1134 cod. civ., ha poi ritenuto che non fosse stata dimostrata l'urgenza della esecuzione dei lavori, atteso che la denuncia al Comune era stata presentata il 26 gennaio 2000, mentre i lavori erano stati eseguiti nel mese di ottobre 2000, e che dovesse escludersi che gli altri condomini avessero avuto regolare preavviso in ordine ai lavori da eseguire e avessero prestato il loro consenso alla esecuzione delle opere.
Il Tribunale riteneva invece fondato il gravame con riferimento alla domanda relativa alla restituzione delle somme versate a titolo di pagamento dei canoni dell'acqua, per un importo documentato di lire 270.000; detta somma doveva quindi essere ripartita tra i sette condomini, con la conseguenza che i convenuti dovevano essere condannati al pagamento ciascuno di Euro 19,92, oltre agli interessi legali.
Per la cassazione di questa sentenza G.M.F. ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi; hanno resistito, con distinti controricorsi, C.G. , da un lato, e G.A. , G.F. e Gu.Fr. , dall'altro; gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
La ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1134, 1136 e 1139 cod. civ..
La ricorrente, dopo aver ricordato il contenuto delle censure rivolte alla sentenza di primo grado, tutte miranti a dimostrare la erronea applicazione, nel caso di specie, dell'art. 1134 cod. civ. in luogo dell'art. 1110 cod. civ., che consente la ripetizione delle spese sostenute dal comproprietario diligente per la esecuzione delle opere di manutenzione del bene comune, si duole del fatto che il Tribunale avrebbe motivato il proprio convincimento esclusivamente argomentando dal rinvio, contenuto nell'art. 1139 cod. civ., alle norme sulla comunione, che è invece norma da interpretare restrittivamente e che mal si adatta all'estensione anche ai diritti reali condominiali, riguardando invece solo quelli personali dei partecipanti, e alla loro organizzazione finalizzata al godimento del bene comune.
Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla urgenza dell'intervento conservativo eseguito, non avendo il Tribunale tenuto conto della prova testimoniale, dalla quale emergeva invece anche la sussistenza del requisito dell'urgenza. Il Tribunale sarebbe quindi incorso nell'omesso esame delle risultanze istruttorie, essendosi limitato ad esprimere concetti insufficienti e inappropriati in ordine alla indifferibilità della spesa senza danno o pericolo, argomentando sui tempi tra denuncia di inizio attività ed esecuzione dei lavori e trascurando di pronunciarsi sulla provata esistenza del pericolo e della connessa urgenza di ovviarvi, ed omettendo altresì di dare conto del fatto che dalla istruttoria emergeva anche la prova dell'avvenuta comunicazione ai comproprietari della necessità dell'intervento. Il Tribunale, infine, non avrebbe dato conto della richiesta di ammissione di una c.t.u. dalla quale avrebbe potuto attingere elementi caratterizzanti il presupposto della spesa urgente.
Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia ancora vizio di motivazione e violazione di legge, ai sensi dell'art. 360, nn. 4 e 5, cod. proc. civ., dolendosi della mancata ammissione della richiesta consulenza tecnica d'ufficio.
Con il quarto motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1101, 1118, 1123 cod. civ. e "omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sull'obbligo dei comproprietari di contribuire alle spese sostenute per la conservazione della cosa comune; errore di calcolo delle spettanze contributive, non considerate nella loro richiesta quantità, e delle quote a carico dei partecipanti".
La ricorrente si duole del fatto che il Tribunale abbia limitato la condanna per l'anticipazione delle spese relative ai canoni dell'acqua all'importo versato per il periodo luglio settembre 2000, dimenticando che i convenuti avevano anche ammesso nel verbale di udienza del 10 dicembre 2001 di essere debitori, per il medesimo titolo, anche di altri importi. Inoltre, il Tribunale avrebbe errato nel suddividere l'importo dovuto in sette parti, laddove comproprietari dell'immobile erano, oltre a lei, altri due gruppi di convenuti; circostanza, questa, che aveva consentito al Tribunale di ritenere esistente un condominio di sette persone, laddove i comproprietari erano tre e il condominio non era stato costituito, né avrebbe dovuto esserlo. Da ultimo, la ricorrente lamenta che il Tribunale non abbia fatto decorrere dal momento di esecuzione dei lavori gli oneri reali cadenti sulla cosa comune.
Il primo motivo di ricorso è infondato.
Il Tribunale ha correttamente e motivatamente ricondotto la fattispecie oggetto di giudizio all'ambito di applicabilità dell'art. 1134 cod. civ.. Tale soluzione è in linea con l'approdo giurisprudenziale costituito dalla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte, la quale ha affermato il principio secondo cui “la diversa disciplina dettata dagli artt. 1110 e 1134 cod. civ. in materia di rimborso delle spese sostenute dal partecipante per la conservazione della cosa comune, rispettivamente, nella comunione e nel condominio di edifici, che condiziona il relativo diritto, in un caso, a mera trascuranza degli altri partecipanti e, nell'altro caso, al diverso e più stringente presupposto dell'urgenza, trova fondamento nella considerazione” che, nella comunione, i beni comuni costituiscono l'utilità finale del diritto dei partecipanti, i quali, se non vogliono chiedere lo scioglimento, possono decidere di provvedere personalmente alla loro conservazione, mentre nel condominio i beni predetti rappresentano utilità strumentali al godimento dei beni individuali, sicché la legge regolamenta con maggior rigore la possibilità che il singolo possa interferire nella loro amministrazione. Ne discende che, istaurandosi il condominio sul fondamento della relazione di accessorietà tra i beni comuni e le proprietà individuali, poiché tale situazione si riscontra anche nel caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, la spesa autonomamente sostenuta da uno di essi è rimborsabile solo nel caso in cui abbia i requisiti dell'urgenza, ai sensi dell'art.1134 cod. civ.” (Cass., S.U., n. 2046 del 2006).
Si deve solo aggiungere che correttamente il Tribunale ha ritenuto applicabile la disposizione di cui all'art. 1134 cod. civ., pur se, nella specie, il condominio non risultava formalmente costituito, con nomina dell'amministratore, atteso che la disciplina del condominio negli edifici opera per il semplice fatto che coesistano in un fabbricato, come nella specie, parti di proprietà comune e parti di proprietà esclusiva.
La ricorrente, con il primo motivo di ricorso, del resto, si limita a ripetere le argomentazioni svolte a sostegno della impugnazione della sentenza di primo grado e non censura specificamente le ragioni addotte dal Tribunale in ordine alla ritenuta applicabilità dell'art. 1134 cod. civ..
Infondato è altresì il secondo motivo, con il quale la ricorrente denuncia vizio di motivazione in ordine alla valutazione circa la affermata insussistenza dell'urgenza, all'accertamento della quale soltanto, ai sensi dell'art. 1134 cod. civ., è subordinato il diritto del condomino ad ottenere la restituzione di quanto anticipato per i lavori eseguiti sulle parti comuni. Il Tribunale, infatti, ha dato conto delle ragioni in base alle quali ha ritenuto insussistente la urgenza dei lavori, e segnatamente ha rilevato come, in relazione ai lavori in questione, la denuncia di inizio dei lavori fosse stata presentata al Comune il 26 gennaio 2000, mentre i lavori avevano avuto inizio solo nel mese di ottobre, e ha trovato conferma della insussistenza dell'urgenza nelle deposizioni assunte nel corso del giudizio di primo grado.
A fronte di tale specifico e congruo accertamento compiuto dal giudice di appello, le, peraltro generiche, censure svolte dalla ricorrente si risolvono, in sostanza, nella richiesta di un diverso apprezzamento in punto esistenza o no dell'urgenza dei lavori, il che non è consentito in sede di legittimità. È noto, infatti, che “il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (v., da ultimo, Cass. 18 marzo 2011, n. 6288).
Per le considerazioni svolte in ordine al secondo motivo, deve ritenersi infondato anche il terzo motivo di ricorso, con il quale la ricorrente si duole del fatto che il giudice di appello non abbia dato corso alla richiesta di consulenza tecnica d'ufficio. In presenza, infatti, di elementi che positivamente inducevano ad escludere la esistenza dell'urgenza dei lavori, la mancata ammissione di una consulenza tecnica d'ufficio, dal carattere evidentemente esplorativo, appare implicitamente, ma non per questo insufficientemente, motivata.
Il quarto motivo di ricorso è inammissibile sotto tutti i profili nei quali esso si articola. Con riferimento al fatto che il Tribunale abbia limitato il diritto della ricorrente unicamente alla restituzione, pro quota, delle spese sostenute per il pagamento della fattura dell'acqua per il trimestre luglio - settembre 2000, e non lo abbia invece esteso ai trimestri successivi, il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare che una domanda siffatta, era stata ritualmente e tempestivamente introdotta in giudizio e poi dolersi della mancata pronuncia sul punto da parte; dei giudici di merito. Al contrario, la ricorrente si è limitata a riferire di avere chiesto la condanna al pagamento “di ogni somma dovuta”, senza dedurre di avere formulato a titolo di restituzione delle spese sostenute per l'acqua nei trimestri successivi una specifica domanda, e ha poi denunciato un vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione; denuncia, questa, che non consente al Collegio di accedere all'esame degli atti processuali e di verificare se una simile specifica domanda fosse stata proposta o no.
Con riferimento alla doglianza concernente il fatto che il Tribunale ha ripartito l'importo della fattura in sette parti, addebitando il pagamento delle singole quote a ciascuna delle parti convenute, si deve rilevare, da un lato, che la ricorrente si è limitata ad allegare che l'esistenza di tre gruppi di condomini, ma non ha in alcun modo documentato tale asserzione; da un altro lato, che la medesima ricorrente difetta di interesse sostanziale alla proposta censura atteso che la detta ripartizione - non oggetto di impugnazione incidentale - opera a suo favore, atteso che ella potrà beneficiare della restituzione di somme superiori a quella che, con il diverso criterio, le sarebbero spettate; da un altro lato ancora, che la censura relativa alla omessa pronuncia “sul momento di insorgenza dell'obbligo di pagamento degli oneri reali cadenti sulla cosa comune al partecipante che ha acquistato l'appartamento, da fissarsi nel momento in cui vengono eseguiti i lavori”, risulta priva di oggetto, atteso che è mancante la statuizione rispetto alla quale potrebbe porsi un problema di individuazione del momento di decorrenza del pagamento.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano, in favore di ciascun gruppo di controricorrenti, in complessivi Euro 700,00, di cui Euro 500,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge.

sabato 29 ottobre 2011

INSIDIA STRADALE E RIMOZIONE DELLE BUCHE

Il sindaco e il responsabile dell'ufficio tecnico del comune assumono la posizione di garanzia, sulla base di una generale norma di diligenza che impone agli organi dell'amministrazione comunale, rappresentativi o tecnici che siano, di vigilare, nell'ambito delle rispettive competenze, per evitare ai cittadini situazioni di pericolo derivanti dalla non adeguata manutenzione e dal non adeguato controllo dello stato delle strade comunali.

(Fonte: Massimario.it - 15/2011. Cfr. nota di Manuela Rinaldi)


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV PENALE

Sentenza 16 febbraio – 7 aprile 2011, n. 13775



Fatto e diritto

Con la sentenza in epigrafe il Tribunale di Acqui Terme confermava la responsabilità di O.A., già ritenuta dal giudice di primo grado, per le lesioni colpose subite dal pedone B.A.

All'O., nella qualità di funzionario addetto alla manutenzione della rete stradale del Comune di Acqui Terme, in quanto dirigente dell'ufficio tecnico di quel Comune, era stato contestato di avere omesso la necessaria manutenzione ordinaria del piano di calpestio del passaggio pedonale fra il marciapiede e l'attraversamento della carreggiata, in cui si era verificato l'incidente, così permettendo il permanere di una "bolla" di materiale bituminoso rialzata rispetto al piano di camminamento e pericolosa in quanto difficilmente visibile e non segnalata in alcun modo, tale da provocare la caduta della persona offesa.

La sentenza impugnata ha fondato la responsabilità dell'imputato nella determinazione del sinistro, ritenendo la sussistenza dell'addebito omissivo, sul rilievo della obiettiva esistenza dell'insidia, in quanto il rigonfiamento dell'asfalto non era percepibile se non ad un occhio particolarmente attento, con la conseguenza che esso costituiva un pericolo in concreto riconoscibile, eliminabile solo attraverso un adeguato controllo da parte degli addetti al sistema di manutenzione. Quanto alla posizione di garanzia, i giudici di appello richiamavano la delibera comunale del 29.8.2002 ed il successivo contratto di incarico dirigenziale a tempo determinato.

Avverso la predetta decisione propone ricorso per cassazione l'imputato, articolando tre motivi, strettamente connessi.

Con il primo motivo, lamenta che la sentenza impugnata, senza rispondere allo specifico motivo impugnazione, aveva omesso di motivare in relazione alla difficile rilevabilità della "bolla", mentre, secondo la prospettazione difensiva era da escludere ogni reato in considerazione della piena visibilità e non insidiosità del piccolo rilievo sull'asfalto.

Con il secondo motivo si duole della erroneità della decisione, laddove i giudici di merito non avevano dato rilievo, ai fini della interruzione del nesso di causalità, alla condotta abnorme della persona offesa, che, al momento della caduta stava camminando all'indietro.

Con il terzo motivo lamenta la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui aveva ricondotto la responsabilità dell'O. alla omessa predisposizione di un sistema di controlli in una città pur non di grandi dimensioni, così interpretando estensivamente la delibera comunale di affidamento dell'incarico all'imputato, senza tener conto che essendo la bolla molto risalente nel tempo e non essendo mai stata segnalata l'anomalia, la situazione avrebbe potuto essere scoperta e rimossa solo con un diverso e più incisivo sistema di controlli del territorio comunale.

I motivi meritano trattazione congiunta essendo volti a contestare oggettivamente e soggettivamente l'addebito.

Il ricorso non merita accoglimento.

Risulta che il giudice di merito, nel ricostruire insindacabilmente il fatto [soprattutto con riferimento allo stato della strada ed alla riconosciuta natura di insidia della bolla presente sul marciapiede] ha affrontato e risolto convincentemente tutti i profili di interesse.

Quanto alla posizione di garanzia, si è valorizzata la delega all'imputato, che lo onerava delle attività di controllo e di manutenzione delle strade. Del resto, come è stato anche di recente ribadito, il sindaco e il responsabile dell'ufficio tecnico del comune assumono la posizione di garanzia, sulla base di una generale norma di diligenza che impone agli organi dell'amministrazione comunale, rappresentativi o tecnici che siano, di vigilare, nell'ambito delle rispettive competenze, per evitare ai cittadini situazioni di pericolo derivanti dalla non adeguata manutenzione e dal non adeguato controllo dello stato delle strade comunali (nella specie, la Corte ha così rigettato il ricorso avverso la sentenza che aveva condannato per il reato di lesioni personali colpose il sindaco, anche titolare di delega assessoriale ai lavori pubblici, e il responsabile dell'ufficio tecnico comunale, cui era stato addebitato di avere omesso adeguati controlli ed interventi sulle condizioni di un tratto di strada comunale, così cagionando ad una passante, che inciampava su un dislivello privo di segnalazione, lesioni personali) (Sezione IV, 15 gennaio 2008, Picone, non massimata).

Qui, in coerente applicazione di tale principio, il tema della responsabilità è stato correttamente risolto valorizzando la delega di cui si è detto.

Quanto al tema della colpa, la rilevata situazione della strada ha consentito di formalizzare la violazione della regola cautelare, avendo poi il giudicante approfondito anche la questione della prevedibilità dell'evento e l'ulteriore questione del comportamento della vittima.

Sotto il primo profilo, è principio non controverso e condivisibile, quello secondo cui, in tema di reato colposo, l'applicazione del principio di colpevolezza esclude qualsivoglia automatico addebito di responsabilità, a carico di chi pure ricopre la posizione di garanzia, imponendo la verifica in concreto della violazione da parte di tale soggetto della regola cautelare [generica o specifica] e della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare mirava a prevenire [la c.d. "concretizzazione" del rischio]. Infatti, l'individualizzazione della responsabilità penale impone di verificare non soltanto se la condotta abbia concorso a determinare l'evento [ciò che si risolve nell'accertamento della sussistenza del "nesso causale"] e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare (generica o specifica) [ciò che si risolve nell'accertamento dell'elemento soggettivo della "colpa"], ma anche se l'autore della stessa [nella specie, il titolare della posizione di garanzia in ordine al rispetto della normativa precauzionale che si ipotizzava produttiva di evento lesivo mortale: qui, il dirigente comunale addetto a curare la manutenzione delle strade] potesse "prevedere" ex ante quello "specifico" sviluppo causale ed attivarsi per evitarlo. In quest'ottica ricostruttiva, occorre poi ancora chiedersi se una condotta appropriata (il cosiddetto comportamento alternativo lecito) avrebbe o no "evitato" l'evento: ciò in quanto si può formalizzare l'addebito solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l'esito antigiuridico o anche solo avrebbe determinato apprezzabili, significative probabilità di scongiurare il danno.

Ebbene tale principio è stato satisfattivamente applicato essendosi verificato come lo stato della strada poteva determinare "prevedibilmente" eventi del tipo di che trattasi: compito cautelare del soggetto onerato della manutenzione è proprio quello di rimuovere quelle situazioni di irregolarità da cui è prevedibile possano sorgere problemi per la circolazione degli utenti.

Mentre, sul punto, solo suggestivo è l'argomento basato sulle dimensioni del Comune, risultando il principio indistintamente applicabile, salve le particolarità che possono derivarne, in ambiti territoriali più ampi, per l'individuazione del soggetto in concreto responsabile.

Nessun rilievo poi può attribuirsi al comportamento disattente della vittima [qui, per il fatto che questa avesse indietreggiato] per l'ovvia ragione che causa eccezionale idonea ad interrompere il nesso causale [articolo 41, comma 2, c.p.] può essere solo un fattore completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale, che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito della causa presupposta: ciò che deve escludersi nella condotta, pur genericamente disattenta, ma affatto abnorme, dell'utente della strada, in presenza di un'"insidia" cui è stata ricondotta la "causa" dell'accaduto.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.



mercoledì 26 ottobre 2011

APRE LA PORTIERA MENTRE UN EFFETTUA SORPASSO A DESTRA DELLA FILA FERMA AL SEMAFORO: A CHI VA LA COLPA DEL SINISTRO?

Cassazione, sez. III, 27 giugno 2011, n. 14099

Nessun rimprovero può muoversi al soggetto che ha aperto lo sportello sul lato destro del veicolo, non potendo configurarsi in capo a quest'ultimo un dovere di tener conto dell'altrui comportamento in violazione di norme di legge.


Cassazione, sez. III, 27 giugno 2011, n. 14099
(Pres. Petti – Rel. D'Amico)


Svolgimento del processo
A. A. convenne in giudizio dinanzi al Giudice di Pace di Viareggio, B. B, C. C. e l'U.C.I., nelle rispettive qualità di proprietario, conducente di un camper di targa tedesca ed Ufficio preposto a fornire garanzia assicurativa in caso di danno cagionato da veicolo di targa straniera, al fine di sentirli condannare in solido al risarcimento dei danni materiali ed alla persona che asseriva di aver subito a causa di un incidente stradale causato dalla apertura di uno sportello del suddetto camper.
Interveniva D. D. proprietaria del ciclomotore sul quale viaggiava A. A.
Il Giudice di Pace di Viareggio rigettava preliminarmente l'eccezione di improponibilità della domanda proposta dall'attore; condannava i convenuti al risarcimento del danno imputando interamente la responsabilità dell'urto all'apertura dello sportello; dichiarava l'inammissibilità dell'intervento tardivamente proposto da D. D.
Proponeva appello l'U.C.I.
Resistevano A. A. e D. D.
Il Tribunale di Lucca, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda proposta da A. A. avverso l'U.C.I. sostenendo che la condotta imprudente del primo costituiva una violazione della norma di cui all'art. 148 C.d,S. in quanto aveva effettuato un superamento a destra del veicolo fermo. Condannava il A. A. a restituire all'U.C.I. le somme percepite in base alla suddetta sentenza.
Propongono ricorso per cassazione A. A. e D. D., con tre motivi.
Resiste con controricorso l'U.C.I. - Ufficio Centrale Italiano.
Motivi della decisione
Preliminarmente si dichiara inammissibile il ricorso di D. D. per non avere impugnato la sentenza del Giudice di pace con la quale il suo intervento era stato dichiarato tardivamente proposto.
Con il primo motivo del ricorso parte ricorrente denuncia "Falsa applicazione dell'art. 148 c.d.s.".
Sostiene A. A. che la decisione del Tribunale appare meritevole di censura in riferimento all'applicazione della disposizione di cui all'art. 148 del Codice della strada la quale disciplina la c.d. manovra di sorpasso: il suo comportamento non costituì infatti un "sorpasso" in senso tecnico, bensì un "superamento" di auto ferme al semaforo.
Il motivo non può essere accolto.
A seguito di un accertamento di fatto l'impugnata sentenza ha infatti ritenuto che il A. A. ha posto in essere un vero e proprio sorpasso tenendo un comportamento colpevole mentre nessun rimprovero può essere rivolto alla passeggera del camper per aver aperto lo sportello nella convinzione che nessun veicolo potesse provenire da destra.
Con secondo motivo del ricorso si denuncia "violazione dell'art. 157 co. 7 c.d.s." sostenendo che chiunque apra la portiera di un veicolo ha l'obbligo di assicurarsi preventivamente di poter compiere liberamente tale manovra, in modo tale che dalla stessa non possa derivare un pericolo per gli altri utenti della strada.
Il motivo deve essere rigettato.
L'impugnata sentenza, con indagine di fatto, ha ritenuto che, in relazione al sinistro per cui è causa nessun rimprovero può muoversi al soggetto che ha aperto lo sportello sul lato destro del veicolo, non potendo configurarsi in capo a quest'ultimo un dovere di tener conto dell'altrui comportamento in violazione di norme di legge.
Con il terzo motivo si lamenta "insufficienza della motivazione in ordine alla manovra di apertura dello sportello".
Si ritiene che la decisione del Tribunale di Lucca è censurabile riguardo all'insufficienza della motivazione sull'affermata legittimità della manovra di apertura dello sportello anteriore destro del camper da parte della trasportata.
Il motivo è infondato.
La motivazione è congrua e si tratta in ogni caso di accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se, come nella specie, congruamente motivato.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con condanna di parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano in complessivi euro 1.600,00 di cui 1.400,00 per onorari, oltre rimborso forfettario delle spese generali ed accessori come per legge.




martedì 25 ottobre 2011

Responsabilità del Comune per danni da randagismo.

La Corte di Cassazione torna ad occuparsi di responsabilità per i danni cagionati da cani randagi[1], affermando il seguente principio di diritto: “i compiti di organizzazione, prevenzione e controllo (anche) dei cani vaganti (siano essi “tatuati, e cioè scomparsi o smarriti dai proprietari, ovvero “non tatuati”) spettano (pure) ai Comuni (…) tenuti anch’essi, in correlazione con gli altri soggetti pubblici (e non) indicati dalla legge, ad adottare concrete iniziative e assumere provvedimenti volti ad evitare che animali randagi possano arrecare danno alle persone nel territorio di competenza”.



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 11 luglio - 23 agosto 2011, n. 17528

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 12.2.2010 la Corte d’Appello di Napoli respingeva il gravame interposto dalla sig.ra **** nei confronti della pronunzia Trib. Torre Annunziata 14.5.2002 di rigetto della domanda alla medesima proposta nei confronti del Comune di Meta di risarcimento dei danni lamentati a seguito del sinistro avvenuto il 12.6.1996, allorquando, mentre percorreva la locale via Caracciolo alla guida del proprio ciclomotore Honda Vision, veniva aggredita da un cane randagio che la faceva cadere dal motociclo, provocandole danni patrimoniale e non patrimoniali.

Avverso la suindicata pronunzia della Corte di merito la **** propone ora ricorso per cassazione, affidato a 5 motivi, illustrati da memoria.

Resiste con controricorso il Comune di Meta

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il 1° motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2907 c.c., in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 3, c.p.c., 112, 113, 163 c.p.c., in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 4 c.p.c., nonché “contraddittoria, erronea, insufficiente ed illogica motivazione” su punto decisiovo della controversia, in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 5, c.p.c.

Si duolo che la corte di merito abbia erroneamente ritenuto essere stata nel caso contestate la mancata prevenzione del fenomeno “del randagismo in sé, con totale avulsione del fatto concreto”, laddove ha agito per ottenere il risarcimento dei danni lamentati in conseguenza del subito attacco da parte del cane randagio, e quindi a causa più generalmente del mancato controllo del randagismo.

Lamenta che il giudice di merito “avrebbe dovuto pronunciare su tutta la domanda dopo aver assolto al potere-dovere di qualificare giuridicamente l’azione esperita e di attribuire il nomen iuris al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, anche in difformità rispetto alla prospettazione giuridica svolta nella domanda”.

Con il 3° motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 43 c.p., 2051, 2043 c.c. 3, 13, 50 d.lgs. n. 285 del 1992, 2, 4 L. n. 281 del 1991, 1, 5, 11 L. Regione Campania n. 36/93, in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 3, c.p.c.; nonché “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione” su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 5 c.p.c.

Si duole che la corte di merito abbia erroneamente limitato l’indagine alla prevenzione del randagismo da parte del Comune senza alcuna relazione con la tutela della pubblica incolumità.

Lamenta che i giudici di merito abbiano “ingiustamente separato il fatto-custodia(condizione della strada dal fatto-aggressione del cane randagio”, e che la corte di merito abbia omesso ogni valutazione in merito alla del pari lamentata “pericolosità del tracciato e del manto stradale di via Caracciolo”, oltre che della “presenza del cane”.

Si duole non essersi considerato che il Sindaco ha, non già quale ufficiale di governo bensì come rappresentante del Comune, il potere-dovere di controllare che le A.S.L. svolga i poteri ad esse delegati in materia di randagismo.

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono fondati nei termini di seguito indicati.

Come questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo, la legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagimo n. 281 del 1991 demanda alle Regioni l’istituzione dell’anagrafe canina e l’adozione di programmi per la prevenzione ed il controllo del randagismo.

Al riguardo, la L. Reg. Campania n. 36 del 1993 (successivamente abrogata dalla L. n. 16 del 2001, ma nel caso ratione temporis applicabile) dispone in particolare che alla sua attuazione “provvedono, nei rispettivi ambiti di competenza, la Regione, i Comuni e le USL. Con la collaborazione di enti ed associazioni protezionistiche, zoofile e animalistiche” (art. 1, comma 4).

Prevede quindi l’istituzione dell’anagrafe canina (art. 3), la realizzazione di vaccinazioni e controlli sanitari (art. 4), la costruzione di “rifugi municipali per cani” (già canili municipali) (art. 5), il controllo del randagismo (art. 7), la promozione di informazione e di educazione (art. 10) nonché l’esplicazione di attività di vigilanza a mezzo (anche) di guardie zoofile comunali (art. 11).

Orbene, emerge già alla stregua di tali richiami evidente come compiti di organizzazione, prevenzione e controllo (anche) dei cani vaganti (siano essi “tatuati, e cioè scomparsi o smarriti dai proprietari, ovvero “non tatuati”) spettano (pure) ai Comuni (non può pertanto condividersi quanto affermato da Cass. 7.12.2005 n. 27001), tenuti anch’essi, in correlazione con gli altri soggetti pubblici (e non) indicati dalla legge, ad adottare concrete iniziative e assumere provvedimenti volti ad evitare che animali randagi possano arrecare danno alle persone nel territorio di competenza (cfr. Cass. 28.4.2010, n. 10190).

Risulta allora non corretta la limitazione della domanda nel caso operata dalla Corte di merito al mero “dovere istituzionale di ogni amministrazione comunale di prevenire il randagismo”, nonché alla rilevanza del fenomeno alle mera attività di “accalappiamento dei cani randagi”; come del pari non corretta è l’affermazione secondo cui all’epoca del sinistro de quo in base al quadro normativo all’epoca vigente siffatta “funzione pubblica” spettava “in via esclusiva” all’unità sanitaria locale territorialmente competente”, non potendo pertanto avallarsi la ravvisata irrilevanza della verifica circa la configurabilità della responsabilità del Comune di Meta in merito al sinistro de quo.

Atteso che risulta in effetti erronea ed apodittica la limitazione della disamina al mero profilo della “funzione pubblica” svolta dalla P.A., atteso che la stessa corte di merito dà atto in motivazione come l’oggetto della pretesa della odierna ricorrente sia costituito dal risarcimento dei danno lamentati in conseguenza del sinistro, dalla considerazione anche di tale (aspetto della) domanda non può dunque prescindersi, spettando ai giudici di merito dare la corretta qualificazione dell’ipotesi di responsabilità nel caso ricorrente, se quella generale ex art. 2043 c.c. ovvero un’ipotesi di responsabilità speciale aggravata ex art. 2051 c.c. o art. 2052 c.c., a tale stregua compiendo quella valutazione nella specie adombrata ma poi in effetti non compiuta, in ragione della – come detto – ravvisata relativa irrilevanza ai fini della decisione.

Va al riguardo osservato che in caso di ravvisata integrazione dell’ipotesi generale di responsabilità aquiliana non può prescindersi dal rilievo che, come da questa Corte anche recentemente precisato, la P.A. è responsabile per i danni causalmente riconducibili alla violazione dei comportamenti dovuti, i quali costituiscono limiti esterni alla sua attività discrezionale e integrano la norma primaria del neminem ledere di cui all’art. 2043 c.c. (cfr., con riferimento a diversa ipotesi, Cass., 27.4.2011, n. 9404).

In presenza di obblighi normativi la discrezionalità amministrativa invero si arresta, e non può essere invocata per giustificare le scelte operate nel peculiare settore in considerazione.

Va altresì posto in rilievo che il modello di condotta cui la P.A. è tenuta postula l’osservanza di un comportamento informato a diligenza particolarmente qualificata, specificamente in relazione all’impiego delle misure e degli accorgimenti idonei ai fini del relativo assolvimento, essendo essa tenuta ad evitare o ridurre i rischi connessi all’attività di attuazione della funzione attribuitale.

Comportamento cui la P.A. è d’altro canto già in base all’obbligo di buona fede o correttezza, quale generale principio di solidarietà sociale – che trova applicazione anche in tema di responsabilità extracontrattuale – in base al quale il soggetto è tenuto a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso nonché volto alla salvaguardia dell’utilità altrui – nei limiti dell’apprezzabile sacrificio – dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi (cfr. Cass., 20.2.2006, n. 3651; Cass., 27.10.2006, n. 23273; Cass. 15.2.2007, n. 3462; Cass. 13.4.2007, n. 8826; Cass., 24.7.2007, n. 16315; Cass., 30.10.2007, n. 22860; Cass., Sez. Un., 25.11.2008, n. 28056. Da ultimo cfr. Cass., 27.4.2011, n. 9404).

Condotta che ove tardiva, carente o comunque inidonea provoca o non impedisce la lesione di quei diritti ed interessi la cui tutela è propriamente rimessa al corretto e tempestivo esercizio dei poteri attribuiti per l’assolvimento della funzione (cfr. Cass., 25.2.2009, n. 4587. V. anche Cass., Sez. Un., 27.7.1998, n. 7339).

A tale stregua, in caso di concretizzazione del rischio che la norma violata tende a prevenire, la considerazione del comportamento dovuto e della condotta mantenuta assume allora decisivo rilievo, e il nesso di causalità che i danni conseguenti a quest’ultima astringe rimane invero presuntivamente provato (cfr. Cass., Sez. Un., 11.1.2008, n. 584; Cass., Sez. Un., 11.1.2008, n. 582, e, da ultimo, Cass., 27.4.2011, n. 9404).

Alla fondatezza – nei suindicati termini – dei motivi consegue, assorbiti gli altri (con i quali la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2909 c.c., 101, 190, 281 quater, 342, 343, 345 c.p.c., in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 3, c.p.c., nullità del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 4 c.p.c.,; nonché “fittizia, omessa, contraddittoria, erronea insufficiente ed illogica motivazione” su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 5, c.p.c. (2° motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 75, 100, 101, 159, 82, 83, 85, 88, 167, 168, 180, 182 c.p.c., in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 3, c.p.c., nullità dei procedimenti e delle sentenza di 1° e 2° grado, in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 4, c.p.c. (4° motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 88, 91, 92 c.p.c., in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 3, c.p.c., nullità del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., in riferimento all’art. 360, 1° co. n.4 c.p.c.,; nonché omessa motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 5, c.p.c. (5° motivo), l’accoglimento in relazione del ricorso, con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli che, in diversa composizione, procederà a nuovo esame, facendo dei suesposti principi applicazione.

Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il 1° ed il 3° motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa in relazione l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione.

Roma, 11.7.2011.

Depositata in Cancelleria il 23.8.2011.

giovedì 13 ottobre 2011

COMPRAVENDITA IMMOBILIARE. MANCATA CONSEGNA DEL CERTIFICATO DI ABITABILITÀ: LA PRESCRIZIONE PER IL RISARCIMENTO

COMPRAVENDITA IMMOBILIARE. MANCATA CONSEGNA DEL CERTIFICATO DI ABITABILITÀ: QUALE PRESCRIZIONE PER IL RISARCIMENTO O L’INDENNIZZO?
Cassazione, sez. II, 21 settembre 2011, n. 19204

Il mancato rilascio del certificato di abitabilità costituisce non già un illecito, ma un inadempimento contrattuale, essendo la relativa obbligazione connaturale alla destinazione abitativa dell'immobile alienato e viepiù specificamente assunta con il contratto di vendita, nel quale la società odierna ricorrente si era obbligata, a sua cura e spese, nel più breve tempo possibile, ad ottenere il rilascio della predetta certificazione da parte delle competenti autorità.
Scaduto tale termine deve escludersi che l'inadempimento abbia carattere permanente, essendo la permanenza categoria omogenea all'illecito, con conseguente immediata decorrenza del termine di prescrizione del diritto succedaneo al risarcimento o all'indennizzo per il mancato rilascio della certificazione di abitabilità.


Cassazione, sez. II, 21 settembre 2011, n. 19204
(Pres. Triola – Rel. Manna)


Svolgimento del processo
Con citazione notificata il 18.3.1997 i coniugi M.L.D. e L..L., acquirenti di un appartamento, giusta atto pubblico del 7.7.1982, convenivano in giudizio, innanzi al Tribunale di Bari, la OMISSIS s.p.a., società venditrice, per sentirla condannare al risarcimento del danno da mancato rilascio della licenza di abitabilità.
La società convenuta nel resistere in giudizio eccepiva (per quanto ancora rileva in questa sede di legittimità) la prescrizione del diritto azionato.
Il Tribunale, rigettata l'eccezione, accoglieva la domanda e condannava la parte convenuta al pagamento in favore degli attori, per il titolo innanzi detto, della somma di lire 60.000.000, liquidata in via equitativa.
Tale sentenza era confermata dalla Corte d'appello di Bari, che riteneva, quanto all'eccezione di prescrizione, che il diritto a conseguire il certificato di abitabilità e, conseguentemente, quello al risarcimento del danno o all'indennizzo ai sensi dell'art. 1381 c.c. in caso di inadempimento, doveva considerarsi indisponibile, e come tale non soggetto a prescrizione, ai sensi dell'art.2934, cpv. c.c.. Pertanto, anche il conseguente diritto al risarcimento era da ritenersi imprescrittibile. Quanto all'ammontare del danno, riteneva doversi condividere la quantificazione operata equitativamente dal giudice di prime cure mediante attualizzazione del valore dell'immobile.
Per la cassazione di quest'ultima sentenza ricorre la MF Trading s.r.l., nuova denominazione della OMISSIS s.p.a., con sei motivi d'annullamento, illustrati da memoria.
Resistono con controricorso L..L. e G., R.M. e R..M., eredi di L.D..M..
Motivi della decisione
1. - Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1381, 2934, comma 2 e 946 c.c., in relazione all'art.360, n.3 c.p.c., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia, in relazione all'art.360, n.5 c.p.c..
Sostiene parte ricorrente che l'obbligazione di far conseguire all'acquirente il certificato di abitabilità dell'immobile alienato è incoercibile e infungibile e, pertanto, nella specie, la Corte territoriale non avrebbe potuto condannare la società convenuta al relativo adempimento.
Inoltre, il diritto di cui i giudici d'appello avrebbero dovuto vagliare l'assoggettabilità al regime della prescrizione non era quello avente ad oggetto l'ottenimento del certificato di abitabilità, ma quello all'indennizzo o al risarcimento del danno.
2. - Con il secondo motivo parte ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 1470 e 2934, 2 comma c.c., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all'art.360, nn.3 e 5 c.p.c..
La Corte barese, si afferma, nel ritenere indisponibile il diritto ad ottenere il certificato di abitabilità non ha considerato che tale qualifica rileva nei rapporti con la pubblica amministrazione titolare del potere di rilasciare il titolo abilitativo, non anche nei rapporti tra privati, che ben possono farne oggetto di negoziato.
In ogni caso, quale che sia il fondamento dell'imprescrittibilità dei diritti indisponibili, è comunque certo che tra questi ultimi non può includersi quello al risarcimento del danno o all'indennizzo, ancorché prodotto da lesione di un diritto indisponibile, trattandosi di un credito soggetto al termine ordinario di prescrizione.
3. - Il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1381, 1453 e 1477 c.c., in relazione all'art.2946 e, nonché l'illogicità e contraddittorietà della motivazione circa un punto decisivo della controversia.
Si sostiene, al riguardo, che la vendita di immobile privo di licenza di abitabilità non ha un oggetto illecito, giacché non esiste norma che la vieti, ma è soggetta soltanto a risoluzione per inadempimento, ove il venditore abbia assunto l'obbligazione di far ottenere all'acquirente detta licenza.
Di riflesso, gli attori avrebbero potuto esperire o l'azione generale di risoluzione per vendita aliud pro alio ovvero per mancata consegna dei titoli o dei documenti inerenti (alla proprietà o) all'uso della cosa alienata, ai sensi dell'art.1477 c.c.; e in alternativa, l'azione per ottenere l'indennizzo previsto dall'art.1381 c.c. In ogni caso, i diritti derivanti dall'inadempimento dell'obbligazione di consegna del ridetto certificato sono tutti di natura contrattuale e, quindi, soggiacciono all'ordinaria prescrizione decennale.
Per contro, la Corte d'appello, pur riconoscendo la natura contrattuale di tale obbligazione, tanto da richiamare l'art.1477, comma 2 c.c., ha contraddittoriamente affermato che tale obbligo deriva dalla legge, dimenticando che la legge richiamata è appunto l'art.1477, comma 3 c.c.
4. - Con il quarto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt.1381 e 2935 c.c. e l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.
La Corte territoriale nell'affermare non prescrittibile il diritto al risarcimento del danno, non si è pronunciata sulla censura contenuta nel primo motivo d'appello della OMISSIS, che dopo aver illustrato le ragioni dell'inesistenza di un illecito permanente aveva rappresentato che il termine di prescrizione decorre dal momento della stipula del contratto di vendita, essendo irrilevante che quest'ultimo non stabilisca un termine entro cui debba essere posto in essere il fatto oggetto di promessa.
5. - Il quinto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 342, comma 1, e 324 c.p.c., dell'art.2909 c.c. in relazione all'art.360, nn. 3 e 5 c.p.c., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all'art.360, n.5 c.p.c..
Afferma parte ricorrente che la Corte d'appello ha errato nel ritenere che la OMISSIS abbia censurato soltanto il capo della sentenza di primo grado relativo all’an del risarcimento del danno, sostenendo, senza considerare il carattere devolutivo pieno dell'appello, che detta società avrebbe invece impugnato solo il capo relativo al quantum.
6. - Con il sesto motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt.1381, 1218 1223, 1226 e 2697 c.c., in relazione all'art.360, nn. 3 e 5 c.p.c., nonché l'illogica e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, avendo la Corte d'appello qualificato come risarcitorio l'obbligo, di natura, invece, indennitaria, derivante dal mancato rilascio del certificato di abitabilità.
7. - I primi quattro motivi, da esaminare congiuntamente perché in parte ripetitivi di una stessa censura ed in parte inerenti alla medesima quaestio iuris, avente ad oggetto l'applicabilità o non del regime della prescrizione al diritto all'indennizzo o al risarcimento del danno da mancato conseguimento della licenza di abitabilità, sono fondati nei sensi e nei termini logico-giuridici che seguono.
7.1. - Non ha rilievo ai fini della decisione sia l'inquadramento sotto la norma dell'art. 1381 c.c. dell'obbligazione della società venditrice di far conseguire alla parte acquirente il certificato di abitabilità, sia la distinzione tra obbligo indennitario ed obbligo risarcitorio a carico del venditore, l'uno e l'altro consistendo nel pagamento di una somma di denaro succedanea dell'utilità non conseguita dalla parte acquirente. Comune ad entrambe le ipotesi, il problema della prescrizione si risolve o a monte, attraverso la qualificazione del diritto a ottenere il certificato di abitabilità, come ha ritenuto la Corte barese; o a valle, in base all'autonomia dell'obbligazione sostitutiva, come ritiene la società ricorrente.
Deviante, inoltre, rispetto al nucleo della questione, è il discorso sulla non coercibilità dell'obbligo del venditore a far conseguire all'acquirente la suddetta certificazione, non solo e non tanto perché anche gli obblighi incoercibili possono essere oggetto di condanna (e ciò anche prima dell'introduzione dell'art. 614-bis c.p.c.), ma anche e soprattutto perché la Corte territoriale si è limitata a condannare la società convenuta al pagamento di una somma, non al compimento di un facere infungibile.
7.2. - Questa Corte ha avuto modo di osservare che il diritto al risarcimento del danno, anche quando viene azionato per effetto della mancata realizzazione di un diritto indisponibile, conservando la propria autonomia rispetto al diritto originario, non ne assume il carattere della indisponibilità ed è, pertanto, soggetto alla prescrizione decennale di cui all'art. 2934 c.c. (Cass. S.U. n. 1744/75; v. anche Cass. n.3921/82, secondo cui il diritto alla rendita per inabilità da infortunio sul lavoro è indisponibile e, conseguentemente, imprescrittibile nella sua configurazione unitaria, restando, invece, prescrittibili nel quinquennio, ai sensi dell'art. 2948, nn. 1 e 2 c.c., le singole rate della rendita; nello stesso senso, cfr. Cass. nn. 4317/81 e 2197/78).
7.3. - All'affermazione di tali principi, che risultano essere stati già applicati ad una fattispecie affatto analoga alla presente (in una controversia in cui era parte la stessa società OMISSIS s.p.a.), nel senso che il diritto dell'acquirente all'indennizzo da mancato rilascio del certificato di abitabilità si prescrive decorso il termine di dieci anni dalla stipula del contratto o dalla fissazione da parte del giudice di un diverso termine per adempiere (Cass. 26509/06, non massimata), occorre dare continuità, con le considerazioni aggiuntive che seguono.
7.3.1. - Elaborata storicamente in rapporto ai diritti assoluti, ma variamente estesa ai crediti (si pensi alla materia tributaria, dei contratti con la P.A., delle prestazioni di carattere alimentare, retributivo, previdenziale o assistenziale ecc.), l'indisponibilità costituisce una qualificazione secondaria di determinati diritti soggettivi in funzione di rafforzamento della tutela ad essi apprestata dall'ordinamento giuridico, il quale ne vieta la negoziabilità preventiva per sottrarre la parte più debole alle pressioni del contraente economicamente più attrezzato. La sua funzione di precipuo stampo garantistico, non esclusa dal concorso con esigenze di più ampia protezione, inerenti non alle posizioni singole, ma alla collettività nel suo insieme, si esaurisce, non potendo altrimenti esplicarsi, allorché il diritto abbia subito una compromissione irretrattabile, vuoi per la lesione diretta arrecatagli, vuoi per l'inadempimento di un'obbligazione corrispondente, vuoi perché sia mancato il fatto del terzo necessario a soddisfare il diritto stesso. Ne deriva il sorgere di una diversa obbligazione risarcitoria o indennitaria a carattere succedaneo, essa stessa soggetta a (un proprio termine di) prescrizione, decorrente, ai sensi dell'art. 2935 c.c., dal momento in cui il diritto può essere fatto valere, e non assistita dal carisma di indisponibilità che presidiava la tutela del diritto leso o insoddisfatto.
Se ne trae sicura conferma dalla giurisprudenza formatasi in tema di transazione su diritti indisponibili, che ha escluso l'operatività del limite posto dall'art. 1966, cpv. c.c. in presenza di un diritto già maturato (cfr. Cass. n.5433/08), nell'ambito di una complessiva regolamentazioni di rapporti di dare e avere (cfr. Cass. n.3527/88) o nel caso del diritto alle restituzioni e ai danni derivanti da reato (v. Cass. nn. 664/88, 651/77 e 1533/66).
7.3.2. - Traslando le considerazioni sopra esposte al caso di specie, si rileva che il mancato rilascio del certificato di abitabilità costituisce non già un illecito, ma un inadempimento contrattuale, essendo la relativa obbligazione connaturale alla destinazione abitativa dell'immobile alienato e viepiù specificamente assunta - come affermato dalla Corte territoriale, con accertamento non oggetto di censura - con il contratto di vendita, nel quale la società odierna ricorrente si era obbligata, a sua cura e spese, nel più breve tempo possibile, ad ottenere il rilascio della predetta certificazione da parte delle competenti autorità. Scaduto tale termine, come accertato dalla Corte d'appello con statuizione implicita (dato l'accoglimento della domanda) in parte qua non specificamente censurata, deve escludersi che l'inadempimento abbia carattere permanente, essendo la permanenza categoria omogenea all'illecito, con conseguente immediata decorrenza del termine di prescrizione del diritto succedaneo al risarcimento o all'indennizzo per il mancato rilascio della certificazione di abitabilità.
7.4. - L'accoglimento dei motivi anzi detti assorbe l'esame delle restanti censure e, cassata la sentenza impugnata, consente la decisione della causa nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto. Invero, essendo decorsi più di quattordici anni dalla conclusione del contratto di vendita (7.7.1982) a quella di introduzione della domanda (18.3.1997), e comunque ben più di dieci anni al netto del termine ("il più breve possibile") contrattualmente fissato per il rilascio del certificato di abitabilità, il diritto azionato deve ritenersi prescritto, con conseguente rigetto della domanda.
8. - Sussistono giusti motivi, data la certa buona fede iniziale della parte attrice nell'introdurre la domanda, per compensare integralmente fra le parti le spese del doppio di giudizio di merito e del presente procedimento di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie i primi quattro motivi, assorbiti il quinto e il sesto, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta la domanda e compensa interamente fra le parti le spese del doppio grado di merito e quelle del presente giudizio di cassazione.